Elie Wiesel e la sua lezione alla Svizzera

Per tanti il luogo dell’agognata salvezza. Ma per molti altri un cancello chiuso in faccia, il preludio all’arresto, all’imprigionamento e in gran parte dei casi a un viaggio di sola andata con destinazione finale un campo di sterminio. La Svizzera e gli ebrei perseguitati dal nazifascismo: come ha ricordato la senatrice a vita Liliana Segre nella sua storica visita a Lugano dello scorso dicembre, un capitolo fatto di tante luci ma anche (come nel suo caso, con il respingimento che avvenne nei pressi del valico di Arzo e che condannò lei e il padre ad Auschwitz) di molte ombre.
Fu più fortunata una ragazza austriaca, Marion Erster, che dal campo di internamento francese in cui era stata reclusa insieme ai suoi cari riuscì a fuggire e ad espatriare in territorio elvetico. «Inizierò questa meditazione ringraziando la Svizzera per avere accolto, durante la guerra, una ragazza ebrea che più tardi sarebbe diventata mia moglie (Marion, nda). Ma quanti altri non hanno avuto tale fortuna?». Si sviluppa a partire da questa domanda l’intensa e inedita testimonianza resa da Elie Wiesel, sopravvissuto alla Shoah e Premio Nobel per la pace, davanti agli studenti dell’Università di Friburgo. Una lezione di oltre un’ora sul rapporto tra passato e futuro alla prova delle lacerazioni del Novecento e che, a distanza di quasi vent’anni da quando fu pronunciata, è più che mai attuale.
Quel giorno di ottobre del 1999 il giornalista Raniero Fratini pensò con lungimiranza di ricavarne una registrazione. E proprio in occasione di questo Giorno internazionale della Memoria quel file audio è diventato un libro, appena pubblicato dalla casa editrice Giuntina con una introduzione della ticinese Sibilla Destefani (che del volume è anche la curatrice).
«Il mondo sapeva», il titolo sotto cui viene presentata la lezione. Sottotitolo: «La Shoah e il nuovo millennio». Un vero e proprio discorso alla Svizzera, che la curatrice ha suddiviso in alcune sequenze tematiche che aiutano la lettura e la messa a fuoco dei diversi argomenti toccati da Wiesel nel corso dell’incontro, organizzato dalla Federazione svizzera delle comunità israelitiche (FSCI). «Negli ultimi tempi - si domandava il filosofo, che ci ha lasciati nel 2016 e di cui viene riportata anche la trascrizione dell’intervento in francese - il testimone che è in me si sente sottoposto a una dura prova: la sua testimonianza è stata accolta?».
Un interrogativo lacerante, che è il filo conduttore della sua intera riflessione. Insieme al tema della consapevolezza. Cognizione di ciò che stava accadendo e di come l’annientamento progredì nell’indifferenza e nel silenzio complice di tanti. E cognizione oggi che senza ricordo ed elaborazione del passato, senza presa di coscienza delle responsabilità, senza una reale volontà di andare a fondo delle tante questioni che restano aperte, non può esserci futuro. O almeno un futuro diverso rispetto ad allora.
Si chiede Wiesel: «Se Auschwitz non ha potuto eliminare il fanatismo cosa potrà riuscirci? Cosa bisogna fare perché, sulla soglia del ventunesimo secolo, l’uomo ammetta finalmente questa verità implacabile: quando un popolo è minacciato nel suo destino, sono tutti gli uomini a essere minacciati?». Domanda che apre una riflessione sul fanatismo, sull’attività nociva di chi «all’amore di Dio oppone l’odio degli uomini». Guai però a perdere la speranza, cui tenacemente lo stesso Wiesel si è aggrappato per tutta la vita: «Io credo - le parole con cui professa la sua convinzione universale - nella luce che ci attraversa e che ci sostiene». Una luce che ci farà procedere «a condizione che noi acconsentiamo ad avvicinarci ad essa andando verso l’altro, andando sempre verso l’altro».
Parole sprezzanti sono invece rivolte contro chi banalizza e mette in pericolo la Memoria: un morbo, osserva, da cui non sono immuni anche alcuni «studiosi e critici male intenzionati che rifiutano il diritto di parola ai sopravvissuti». E questo perché convinti di avere più verità in tasca «dai documenti». Wiesel cita al riguardo Primo Levi, che fu suo compagno di blocco e che li definì «ladri del Tempo» che s’infiltrano «attraverso i buchi delle serrature e gli interstizi, e prendono i nostri ricordi senza lasciare traccia». Al giorno d’oggi, con la scomparsa degli ultimi sopravvissuti in divenire, un tema impossibile da eludere.
«Il mondo sapeva eppure rimase a guardare» scrive ancora Wiesel, rievocando i giorni drammatici della persecuzione e l’orrore di Auschwitz raccontato con particolare intensità nel suo capolavoro «La notte» (volume con cui nel 1980 nacque la Giuntina, grazie a una intuizione del suo fondatore Daniel Vogelmann, e che lo fece conoscere al pubblico italiano). Ma non è un lamento senza sbocco. È anzi uno sprone affinché miopie e violenze non si ripetano di fronte a nuove ingiustizie. Le cose che seguono non dovranno più accadere, incalza Wiesel: «Lasciare che l’odio corroda le vittime, chiudersi nei rancori, nella tristezza smisurata che finisce con il corrompere il futuro».
Riguardo a quest’ultimo punto cita il Talmud, il pilastro dell’ebraismo in cui ad un certo punto si spiega come la tristezza concorra ad allontanare la Shekhinà, la presenza di Dio. E quindi questo esclusivo stato d’animo sarebbe una sconfitta anche per la Memoria e per la sua efficace trasmissione alle nuove generazioni. «Memoria di tristezza, sì, ma non dominio della tristezza! Perché il lutto - afferma Wiesel - è limitato nel tempo ed è proibito prolungarlo nel tempo». In altre parole, aggiunge, «che la tristezza passata faccia parte del futuro nel suo insieme è ammissibile; ciò che però non lo è, è che essa invada il futuro e arrivi a dominarlo». L’impegno come risposta all’indifferenza. Perché è la vita, con i suoi inciampi, ma anche con le sue gioie e opportunità, l’unica strada da percorrere. «Ci sono negli uomini - insegna Wiesel - più cose da celebrare che da disprezzare».