Cinema e sport

Il fenomeno Hustle: Adam Sandler come Rocky

Il film uscito l'8 giugno su Netflix ha ottenuto rapidamente un'enorme notorietà — Prodotta dallo stesso attore e nientemeno che da LeBron James, la pellicola mantiene per due ore un grande ritmo — Ecco gli ingredienti del suo successo
Stefano Olivari
19.06.2022 21:27

Da quasi mezzo secolo lo spirito di Rocky aleggia su tutta la cinematografia sportiva e l’enorme successo di Hustle, diventato il film più visto su Netflix subito dopo la sua uscita l’8 giugno (dal 3 nelle sale statunitensi), lo dimostra ancora una volta. Un bel colpo per Adam Sandler e anche per Netflix, che con lui ha un contratto-capestro da 350 milioni di dollari e che finora dalla collaborazione aveva avuto soltanto flop.

Philadelphia e il tifo europeo

Un successo costruito a tavolino, partendo da una stella molto americana come Sandler e costruendogli intorno una storia di riscatto personale, suo e di un giovane giocatore di pallacanestro, storia ambientata non a caso nella Philadelphia cinematografica di Stallone, con tanto di corse all’alba, scalinate e miglioramenti cronometrici giorno dopo giorno. E lo stesso Sandler fa un po’ il verso a Stallone, con tanto di palpebre mezze abbassate, aspetto trasandato e postura del perdente con un cuore grande. Certo il successo non è così facile, se no copiando gli schemi del passato tutti i film sarebbero in testa alla classifica dei più visti di Netflix: ci vuole qualcosa in più, qualche particolare che faccia scattare l’identificazione in uno dei protagonisti o il tifo per il lieto fine. E in Hustle questi meccanismi indubbiamente scattano, con un’ambientazione non casuale visto che i Sixers sono fra le più amate squadre NBA al di fuori degli USA, merito degli anni Ottanta, e che Philadelphia ha un tifo quasi di tipo europeo, emotivo ed ipercritico. Impossibile, anche per chi conosce poco della pallacanestro, passare ad altro una volta che il film è iniziato. Magari Sandler non vincerà l’Oscar, ma Hustle è stato forse il suo film con le migliori critiche.

Il fenomeno Bo Cruz

Il protagonista, Stanley Sugerman (cioè Sandler), è uno scout  internazionale dei Philadelphia 76ers: gira per il mondo quasi tutto l’anno cercando talenti sconosciuti, soprattutto in Europa, anche se nell’era del web di sconosciuto c’è poco e Stanley va sui campetti più sperduti e trova i casi umani più assurdi (divertente l’apparizione di Marjanovic, visto che questi colpi di solito si provano con giocatori slavi), per trovare il mitico campione fuori dai radar, da chiamare poi al draft NBA. Stan è stanco, bolso e convinto di avere perso la sua grande occasione quando da promettente giocatore di Temple (università proprio di Philadelphia) si sfasciò una mano in un incidente stradale. Dopo trent’anni di oscuro lavoro nella NBA però sogna ancora di diventare allenatore NBA, almeno assistente allenatore. Glielo promette il proprietario dei Sixers, un carismatico Robert Duvall, che però muore dopo poche ore lasciando la squadra al presuntuoso figlio, che rimanda Stanley a fare scouting. Per puro caso a Maiorca si imbatte in un ventiduenne che fa il muratore, si chiama Bo Cruz e gioca per vincere piccole scommesse. Va da sé che Bo Cruz (interpretato da un credibilissimo Juancho Hernangomez, nazionale spagnolo e adesso agli Utah Jazz) è un fenomeno, con una storia triste alle spalle e una figlia da mantenere. Lo scout dei Sixers lo porta negli Stati Uniti, contro il parere di tutti, e ci fermiamo al confine dello spoiler. Di sicuro Bo Cruz è l’archetipo del giocatore con potenziale inesplorato, che nella NBA spesso piace più dei campioni europei già formati, che spesso vengono ostracizzati: Drazen Petrovic il caso più famoso, ma ce ne sono stati tanti altri.

NBA e i meriti

Hustle, due ore dal grande ritmo, è prodotto dallo stesso Sandler e nientemeno che da LeBron James, ed ha una forza che al tempo stesso è una debolezza: sembra un prodotto NBA, da tanto che la lega è presente e collaborativa nei vari episodi, con tanti grandi del presente, da Doncic a Trae Young ma soprattutto Anthony Edwards (prima scelta NBA nel 2020), e del passato a metterci la faccia: fondamentale il ruolo che ha Julius Erving, cioè Doctor J, non solo nella storia reale dei Sixers ma anche in quella inventata di Bo Cruz. Il politicamente corretto della NBA si salda quindi a quello di Netflix, generando una storia in cui l’unico antipatico, nemmeno cattivo, è il nuovo proprietario dei Sixers, ovviamente un maschio bianco (il film è stato girato nel 2020, se no l’avrebbero fatto anche russo). Perché la NBA, questo il messaggio veicolato in maniera nemmeno tanto subliminale, è dura, sì, ma alla fine i meriti vengono riconosciuti. In omaggio ai canoni vigenti la moglie di Sugerman è afroamericana (la interpreta Queen Latifah) e la loro figlia non troppo carina, per non essere accusati di sessismo o di mercificazione del corpo femminile. Certo la correttezza si ferma di fronte ai soldi, pensando a come la NBA (lo stesso LeBron James fece una figuraccia memorabile) si comporta quando c’è da fare affari con la Cina della situazione. Curiosità: l’idea originaria di Sandler, autentico appassionato di pallacanestro e tifoso dei New York Knicks, era che il talento sconosciuto fosse cinese, poi l’azienda ha provveduto a ricordargli che in Cina non c’è Netflix.

E questo successo?

Da cosa nasce quindi il successo di Hustle, termine che nel gergo NBA indica il dare tutto ciò che si ha dentro? Prima di tutto dal fatto che il pubblico di Netflix ha diverse caratteristiche, anche ideologiche, in comune con quello NBA, parlando della media. Il regista Jeremiah Zagar è stato bravo soprattutto nel far recitare gente che nella vita non recita, in particolare i giocatori: molto riuscita la parte in cui Edwards si esibisce nel classico trash talking NBA (in pratica insulti scientifici, per far saltare i nervi agli avversari) ai danni di Bo Cruz. Ma il pubblico molti di quei personaggi già li conosceva, quindi si è sentito subito immerso nella storia. In secondo luogo Hustle, al di là delle citazioni di Rocky, rispetta i canoni dei grandi film sportivi del passato e non ha mai, diciamolo, una vera sorpresa. È insomma rassicurante, come lo è sempre il già visto e il già sentito: poi chi ha mestiere ti fa credere di essere di fronte a qualcosa di nuovo. Terzo: nel film quasi tutti (tranne Bo Cruz…) sono credibili, non ci sono salti temporali e situazioni oniriche o ai confini della realtà, una boccata d’aria in mezzo a tante produzioni, anche serializzate, in cui nemmeno i fanatici riescono più a stare dietro alla trama. Insomma, un film di una volta adattato ai gusti ed ai tabù del 2022.   

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