Spazio

Ora l'universo ha meno segreti

Le prime immagini diffuse dal telescopio James Webb sono rivoluzionarie – L'esperto Mario Guarcella: «Un livello mai visto prima»
Giona Carcano
12.07.2022 21:35

Un fuoco d’artificio nel buio dell’universo, che squarcia come un lampo l’invisibile rendendolo visibile, umano. La prima immagine del telescopio spaziale James Webb è storia, commozione e curiosità. Immensità, anche. Perché la porzione di cielo osservata ha le dimensioni di un granello di sabbia – tenuto fra il pollice e l’indice – osservato a distanza di un braccio, in direzione del firmamento. Siamo piccoli, sì. La Terra stessa è infinitesimale di fronte a tutto ciò che ci circonda. Lo sapevamo già, certo, ma da oggi la nostra consapevolezza è forse diversa, più nitida. Grazie, appunto, a un’immagine simbolo, frutto di 25 anni di lavoro, speranza e coraggio.

Che cos’è, e che cosa ci dice

Ai più, probabilmente, la fotografia sembrerà simile a molte altre. Ci suona quasi familiare: Hubble, ma anche altri telescopi, ci avevano già regalato viste mozzafiato dell’universo. Eppure, in questo caso (nello specifico, è stato osservato l’ammasso di galassie SMACS 0723 situato a più di 4 miliardi di anni luce dalla Terra) , siamo di fronte a qualcosa di totalmente diverso, di totalmente rivoluzionario. Di una potenza mai vista prima. «Il livello di risoluzione è incomparabile rispetto al passato, sì», commenta Mario Guarcella, ricercatore dell’Istituto nazionale italiano di astrofisica (INAF) e responsabile di uno dei primi programmi scientifici approvati dal team del James Webb. «In primo piano riconosciamo nitidamente delle stelle (con le tipiche ‘‘frecce’’ di luce, effetto dovuto ai 18 esagoni che compongono lo specchio primario del telescopio, ndr) appartenenti alla Via Lattea. In totale vediamo una decina di stelle: il resto, ed è qualcosa di incredibile, è un mare formato da migliaia di galassie, composto a sua volta da un numero praticamente incalcolabile di stelle». L’osservazione è frutto del cosiddetto «deep field», il campo profondo. Ciò significa che stiamo guardando lontanissimo sia nello spazio, sia nel tempo. Tanto che alcune galassie – i ‘‘puntini’’ più piccoli e rossi nell’immagine – si sono formate poche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang. Abbiamo quindi visto l’universo neonato, 13 miliardi di anni fa. E, ancora, con una risoluzione e un livello di dettaglio mai visti prima d’ora. Nei prossimi anni, gli scienziati potranno infatti studiare la formazione delle prime stelle e delle prime galassie, riscrivendo l’epopea dell’esplorazione spaziale grazie al James Webb, una macchina del tempo.      

Einstein l’aveva visto

Restiamo ancora all’immagine, alla storia. Un’altra caratteristica – che ritroviamo ovunque, ma in particolare al centro – è la forma assunta da alcuni oggetti cosmici. Sembrano distorti, arrotondati, piegati. Da che cosa? Ancora l’astronomo: «È l’effetto delle cosiddette lenti gravitazionali», spiega. Un fenomeno intuito e descritto nel 1915 da Albert Einstein, e contenuto nella teoria della relatività. «La luce di una sorgente lontana - che in questo caso si trova dietro all’ammasso di galassie SMACS 0723 osservato nella fotografia -, nel suo camminare nello spazio, a un certo punto viene deviata dall’immensa gravità prodotta dai corpi celesti che incontra. La luce viene quindi focalizzata nel punto di osservazione, in questo caso il James Webb. Questo fenomeno ci permette di vedere più lontano di quello che potremmo sperare se non ci fosse l’effetto delle lenti gravitazionali. Se vogliamo, è come se guardassimo attraverso due telescopi: il nostro, tecnologico, e quello cosmico, basato sulla legge della relatività. Ecco perché riusciamo a vedere così lontano». Oggetti estremamente remoti resi visibili dall’enorme capacità del telescopio spaziale di catturare la luce, anche quella più flebile, anche quella più distante.        

Stelle coperte da queste nebulose di polvere non si possono vedere con la strumentazione ottica: l’infrarosso, invece, lo permette. Possiamo vedere le sorgenti interne delle nebulose, che cosa si nasconde al loro interno. Come i campi di formazione stellare
Mario Guarcella, ricercatore dell’Istituto nazionale italiano di astrofisica

Come è stata realizzata

In precedenza, abbiamo parlato di potenza. Un concetto che ritornerà ancora e ancora durante gli anni di attività del James Webb. Perché, sì, il telescopio è incredibilmente potente. «Supera qualsiasi aspettativa», per dirla con gli scienziati della NASA, che non riescono a trattenere lo stupore di fronte a tanta tecnica, tanto ingegno umano. Come ha ricordato John Mather, astronomo e premio Nobel, «quando il progetto è iniziato, nel 1995, non disponevamo della tecnologia adatta per ciò che volevamo raggiungere. Abbiamo dovuto inventarcela». Potenza, quindi. Come quella che sta dietro all’immagine. Pensate: Hubble, per la stessa immagine del campo profondo dell’universo, aveva impiegato settimane di osservazioni. Il James Webb ci ha messo poco più di mezza giornata. La nuova ‘‘macchina’’ può dunque osservare più in profondità, a una risoluzione estremamente maggiore, impiegandoci molto meno tempo. «L’immagine che ci hanno regalato è anche frutto dell’avanzata strumentazione per l’osservazione nell’infrarosso», sottolinea Guarcella. «Anche Hubble può guardare in quello spettro,  ma con una definizione minore». Questa tecnica di osservazione riesce inoltre a perforare le polveri presenti sia nella nostra galassia, sia nello spazio intergalattico. «Stelle coperte da queste nebulose di polvere non si possono vedere con la strumentazione ottica: l’infrarosso, invece, lo permette. Possiamo vedere le sorgenti interne delle nebulose, che cosa si nasconde al loro interno. Come i campi di formazione stellare».

Indagini rapide

Il James Webb, inoltre, ha una diagnostica rapidissima: ad esempio, può determinare la composizione dell’atmosfera di un esopianeta molto più velocemente rispetto ai suoi predecessori. È quindi possibile riconoscere i «mattoni della vita» in modo più accurato e rapido. Oggi, ad esempio, è stata mostrata anche l’immagine di WASP-96b, un caldissimo esopianeta gigante gassoso (la metà della massa di Giove). Il telescopio ha identificato con certezza la presenza di acqua, sotto forma di vapore. Una rivoluzione, sì. L’ennesima.                

Le altre meraviglie

Ma gli scienziati della NASA hanno rilasciato altre immagini. Detto del campo profondo e dell’esopianeta, l’agenzia (in collaborazione con l’ESAe l’agenzia spaziale canadese, anch’esse coinvolte nel progetto) ha messo a disposizione una spettacolare panoramica della nebulosa della Carena – che potete ammirare in prima pagina –, una «fabbrica» di stelle. A dimostrazione della diversa e avanzatissima strumentazione del telescopio, è stata inoltre osservata un’altra nebulosa, l’Anello del sud: una nuvola di gas che avvolge una stella morente. Infine, il quintetto di Stephan, un gruppo compatto di cinque galassie.

Ciò che abbiamo visto è comunque solo uno spettacolare assaggio. Il JWST è infatti costruito non tanto per le immagini, quanto per la scienza, per le scoperte. «Sono convinto che con il nuovo telescopio si scopriranno cose che ancora non abbiamo immaginato», conclude Guarcella. «E che, grazie anche ai progressi dell’astronomia e dell’astrofisica, ci regalerà una conoscenza dell’universo completamente nuova».  

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