Calcio

L'Euro femminile e il suo vocabolario: «L'ostacolo non è la lingua, ma la resistenza culturale»

È giusto parlare di «portiera»? E, rispetto ad altre realtà, come si è adattato l'italiano sui termini femminili professionali? A margine della rassegna continentale in corso in Svizzera, abbiamo intervistato la linguista Vera Gheno
La portiera - sì, il lemma esiste e va usato - in un tuffo spettacolare. © ap/martin meissner
Maddalena Buila
08.07.2025 23:30

In questi giorni l’attenzione è tutta sull’Europeo ospitato dalla Svizzera. Un mondo che porta con sé svariate domande in merito a come vadano chiamati i ruoli del calcio al femminile. Il tema, ci spiega la linguista Vera Gheno, è legato soprattutto a una questione culturale.

Signora Gheno, partiamo da qualche esempio. Il portiere al femminile sarebbe la portiera. Eppure qualcuno storce il naso perché ritiene che il termine si riferisca solo allo sportello dell’automobile.
«Premessa: le parole spesso hanno più di un significato. Si chiama polisemia. Se ci viene in mente prima un’accezione rispetto all’altra è per via dell’abitudine. Anche il portiere al maschile ha più sensi. È pure colui che si occupa di uno stabile. Quando assistiamo a un match di calcio, tuttavia, a nessuno viene in mente che si sta parlando dell’usciere. Il fatto che al femminile questa associazione immediata non ci sia, non è dovuto a una diversa pregnanza della parola, ma a una consuetudine. Perché fino ad oggi di donne che hanno ricoperto questi ruoli ce ne sono state poche».

Altro esempio. Il tecnico e la tecnica. Termine, quest’ultimo, che crea dubbi perché indicherebbe «le norme dell’esercizio pratico e strumentale di un’arte».
«E invece la tecnica è giustissimo. Anche il tecnico ha parecchie accezioni e può essere usato pure come aggettivo. Lo stesso problema si riscontra tra il fisico e la fisica, che non si potrebbe usare perché sarebbe la materia scolastica. Ma l’identica cosa dovrebbe valere per il termine fisico che fa riferimento al corpo. La questione non ha alcun senso. Sono tutti lemmi che esistono. Nessuno farebbe il ragionamento inverso con le parole maschili, semplicemente perché sono entrate nella nostra quotidianità da più tempo. Perché le stesse domande non vengono poste a una sarta, a un’operaia, o a una cassiera? Perché non sono ruoli apicali o situazioni professionali in cui le donne sono presenti da poco».

E come si fa, dunque, per cambiare l’automatismo?
«Usando i termini al femminile. Così che piano piano - perché, comunque, i mutamenti linguistici richiedono tempo - cambierà anche l’abitudine. Il 1. luglio 2019, in occasione dei Mondiali, avevo scritto un articolo per Zanichelli proprio su questo tema. Ero dunque andata a spulciare lo Zingarelli, che mi aveva confermato come la maggioranza dei ruoli abbia il suo femminile registrato nel vocabolario. Va ricordato che si tratta di uno dei primi dizionari che ha iniziato a tenere conto dei femminili professionali. Ciononostante, sono passati sei anni e siamo ancora qui. Questo perché dalla teoria alla pratica c’è sempre di mezzo il fattore umano. Di fronte ai cambiamenti linguistici, che sottintendono anche mutamenti culturali, c’è sempre una grande resistenza. Molto dipende anche dai giornalisti, che possono favorire il mutamento normalizzando l’uso di questa terminologia».

La questione non ha alcun senso. Sono tutti lemmi che esistono. Nessuno farebbe il ragionamento inverso con le parole maschili, semplicemente perché sono entrate nella nostra quotidianità da più tempo
Vera Gheno, linguista Università di Firenze

In questi giorni, durante una telecronaca, un giornalista si è corretto passando dalla frase «In area non c’era nessuno» a «In area non c’era nessuna». Ha fatto bene o comunque la forma al maschile sarebbe stata accettabile?
«È stato bravo a ravvedersi. In italiano il maschile fa le veci di una forma priva di genere che non esiste. I nostri automatismi ci portano dunque ad usarlo come se fosse la norma. Meccanismo che si può contrastare solo con l’attenzione. Nella concitazione di una telecronaca non è detto che tutti se ne accorgano, perché richiede uno sforzo mentale in più. Ma se avessimo come forma base il femminile sovra esteso, ci farebbe strano il contrario. Non è una questione interna alla lingua, ma alla forma della nostra società. Per millenni abbiamo vissuto in comunità androcentriche, dove il maschile è il parametro di base. Pensiamo anche al fatto che gli studi di genere per definizione siano considerati le ricerche che riguardano le donne o gli altri sessi. Ma pure il maschile è un genere. Questo perché la nostra è una società a misura d’uomo. Letteralmente».

Il resto dell’Europa invece come si comporta?
«Alcune nazioni sono molto più avanti di noi. Nonostante sia dalla metà degli anni ’80 che si ragiona sui femminili professionali, con il famoso “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana” di Alma Sabbatini del 1986-87, alle nostre latitudini c’è sempre stata una grande renitenza al cambiamento. Nei Paesi in cui si parla spagnolo, per esempio, questi termini sono usati con molta più tranquillità. Anche la Germania si è posta questi problemi ben prima di noi. In questo caso la lingua tedesca è stata aiutata dall’avere una cancelliera, Angela Merkel, che ha influito tanto sul tema. In questi Paesi semplicemente ci si è adattati senza farne una questione politica o di Stato. Ricordiamoci anche che in Italia, dagli anni ’80 in poi, l’uso dei femminili professionali è diventata un marchio di sinistra e l’uso del maschile di destra. Come nel caso di Giorgia Meloni, che si fa chiamare il Presidente del Consiglio».

A volte sono però le stesse protagoniste del calcio femminile che non ritengono importante la distinzione dei ruoli femminili e maschili. Come mai secondo lei?
«Esistono varie risposte. In primis moltissime persone non si interrogano sul senso delle parole che usano. Mi immagino che una calciatrice possa pensare che i problemi sono altri e che il fatto che venga chiamata in un modo o in un altro non importi, fintanto che può giocare. Una posizione anche lecita e comprensibile. Ma per una linguista ci sono un paio di addentellati in più. Per esempio, il fatto che abbiamo una quindicina d’anni di studi empirici che ci dicono che l’uso del maschile sovra esteso può provocare dei bias cognitivi, dei pregiudizi inconsapevoli. Se si considera il femminile un’eccezione, si considererà anche la presenza femminile un’eccezione. Questo si rispecchia anche nello sport. Ecco perché il calcio è ritenuto una prerogativa maschile con un’occasionale puntatina nel mondo femminile».

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