Il Mundial perso, la sua Svizzera e Xhaka: Uli Stielike lancia Qatar 2022

Ha guardato i Mondiali negli occhi. Andando oltre alle apparenze. Indagandone l’anima. Lì, in profondità, ha provato la felicità più autentica, quando perdersi sembrava inevitabile. Ma è altresì caduto dolorosamente, conoscendo la peggiore delle delusioni sportive. Perdere la finale delle finali. Lui è Ulrich Stielike. Per tutti Uli. Calciatore leggendario - per molti l’erede di Franz Beckenbauer -, commissario tecnico apprezzato e ora, fresco di 68. compleanno, fine osservatore. Il Corriere del Ticino ha avuto il privilegio di contattarlo alla vigilia dei Mondiali. Spalancando così una finestra sul torneo e aprendo al contempo l’album dei ricordi dell’ex tecnico tedesco.
Il pazzesco debutto al St. Jakob
«A Doha, per dieci giorni, ci sarò anch’io» annuncia innanzitutto Stielike, rispondendo dall’Andalusia, dove oramai risiede. «Sono stato invitato dalla Federazione qatariota alla luce dei quattro anni trascorsi nell’Emirato in qualità di allenatore di club. Sarà interessante scoprire il nuovo volto della capitale. Una città che cambia pelle di anno in anno. Ovviamente avrò l’opportunità di assistere a diversi match. Tanti match, invero. La mia Germania, il Qatar, la Corea del Sud che ho guidato tra il 2014 e il 2017, Francia, Tunisia, senza dimenticare Svizzera-Brasile». Urca. Pronti, via, ed è già tempo di highlights. Sì, perché la sfida tra rossocrociati e verdeoro evoca ricordi dolcissimi. In Stielike. In noi. Il 21 giugno del 1989, Uli - allora 34.enne - fece infatti il suo esordio sulla panchina della Nazionale. Non solo. Il debutto in carriera da allenatore coincise con la prima vittoria elvetica contro il Brasile. Pazzesco. Stielike conferma: «Quello fu il primo e ultimo match al termine del quale dovetti fare una doccia. Mi sentivo ancora addosso i panni del giocatore e, di conseguenza, passai l’incontro a correre su e giù a fianco della linea laterale. Ero convinto che con un simile trasporto avrei aiutato la squadra nel migliore dei modi». È ciò che avvenne al St. Jakob di Basilea, con Kubilay Türkyilmaz nella veste di eroe e uomo partita grazie al rigore trasformato dopo la pausa.

Il miracolo di Sofia
La storia, Uli e Kubi, la scrissero però anche due anni più tardi. In Bulgaria, nell’ambito delle qualificazioni a Euro 1992. «Non saprei dire se la Svizzera entrò in una nuova dimensione grazie a quella clamorosa rimonta» afferma oggi Stielike. «Una cosa è certa. Con la vittoria di Sofia, dimostrando sacrificio e forza di volontà sino all’ultimo minuto, quella selezione seppe conquistarsi il rispetto della gente. Dei tifosi. Basti pensare che un mese dopo, per la sfida casalinga contro San Marino, a San Gallo erano presenti in 12 mila. E ciò quando una gara di questo tipo, in passato, veniva seguita da 3-4mila persone». Il miracolo di Sofia, ad ogni modo, non è rimasto isolato. E in qualche modo si è ripetuto a trent’anni di distanza. A Bucarest, già, teatro degli indimenticabili ottavi di finale di Euro 2020 vinti ai rigori contro la Francia. Secondo Uli Stielike, paragonare le due imprese risulta tuttavia difficile. «La forza dell’attuale Nazionale risiede nello status dei suoi giocatori. Quasi tutti militano all’estero. Diversi in ruoli chiave. È questa, banalmente, la grande differenza con la mia Svizzera. Se quella di Yakin è la più forte di sempre? Direi che è la più equilibrata. Sfidare il Brasile nella fase a girone può essere un vantaggio. I pronostici parlano solo per i verdeoro, ma sono convinto che in questa gara e in generale nella competizione, i rossocrociati possono creare la sorpresa».


Le parole di Claude Ryf
Claude Ryf, suo compagno ai tempi del Neuchâtel, disse di Stielike che era un giocatore di classe mondiale «perché non prendeva una sola decisione sbagliata in 90 minuti. Un calciatore che faceva tutto giusto e per questa ragione rendeva migliore chi scendeva in campo con lui». Da trascinatore a trascinatore, vien da chiedersi se si possa affermare lo stesso di Xhaka. Nel 2022. «Non conosco Granit» premette Uli. Per poi osservare: «Un capitano deve essere leader nei fatti e non solo a parole. Deve essere esemplare. Sempre. È il primo obiettivo che mi posi quando passai dal Real Madrid allo Xamax. Mostrando temperamento ma anche riuscendo a controllarlo. In passato, Xhaka non è sempre stato all’altezza della situazione su questo piano. La grande stagione con l’Arsenal , ora, sembra invece suggerire e promettere altro. Il Mondiale in Qatar, con la sua pressione e le sue intense emozioni, confermerà o smentirà se il salto di qualità è avvenuto definitivamente».
Littbarski, Cabrini e il Bernabeu
Pressione e pulsazioni alle stelle. Ai Mondiali spagnoli del 1982, Stielike venne travolto da entrambe con la maglia della Germania Ovest. «Quando iniziai a giocare a calcio, un allenatore mi insegnò una cosa molto semplice: in campo si va per vincere, ma se l’avversario è più bravo bisogna solo stringergli la mano e accettare la sconfitta. Ecco, al Bernabeu - 40 anni fa - andò in questo modo. Gli Azzurri erano più forti. E noi non disponevamo degli strumenti per resistere loro in finale. Il rigore sbagliato da Cabrini, in tal senso, fu emblematico. Dopo un simile episodio, una squadra in salute è in grado di prendere in mano l’incontro. La mia Germania non seppe farlo. A soli tre giorni di distanza, non riuscimmo a gestire le incredibili emozioni generate dal penultimo atto vinto ai rigori contro la Francia. Un’altra finale, che credevamo di aver perso». La notte di Siviglia, già. Con le strazianti lacrime di Stielike - dopo l’errore dal dischetto - e l’abbraccio consolatorio di Littbarski. Malgrado la coppa più bella persa sul più bello, Uli non si fa però divorare dai rimpianti. «Quando si tirano i primi calci al pallone si sogna di diventare professionisti, di vestire la maglia di grandi club, di disputare le partite più importanti. Beh, io ho vissuto gli anni d’oro del Borussia Mönchengladbach, giocato per il Real Madrid e - pur perdendole - provato l’ebbrezza delle finali di maggior prestigio. Per tacere dell’Europeo conquistato nel 1980. No, non capita a tutti».


«Arrivai momento giusto»
In pochi possono altresì affermare di aver guidato nazionali europee, africane e asiatiche. Anche se, in questo caso, i palcoscenici più prestigiosi si sono sempre negati. «In fin dei conti - evidenzia Stielike - non ho allenato selezioni di primo piano. La Costa d’Avorio, in realtà, disponeva delle qualità per prendere parte ai Mondiali. E in effetti lo fece, nel 2010. Purtroppo, però, fui costretto ad abbandonare la carica due anni prima, a causa della morte di nostro figlio Michael. Con la Corea del Sud ci giocammo invece la finale della Coppa d’Asia, nel 2015, cedendo all’Australia padrona di casa». E poi, o meglio all’inizio di tutto, la Svizzera. La cui rinascita, stando a molti osservatori, va ricondotta proprio all’avvento di Uli Stielike. «Il lavoro di un allenatore - osserva il 68.enne - dipende in larga parte dalla squadra a disposizione. Ebbi la fortuna di entrare in funzione in un buon momento. Quella selezione, va detto, era giovanissima. Ma allo stesso tempo molto interessante, ricca di talento. Altri allenatori, forse, avrebbero atteso che molti di questi ragazzi accumulassero esperienza nei club. Personalmente, invece, concessi loro minuti e partite importanti senza alcun timore. La squadra comprese la portata della mia fiducia e la risposta in campo fu molto positiva».
«Dov’è il rispetto?»
A poche ore dal fischio d’inizio di Qatar 2022, prevedere quale sarà la risposta di pubblico e nazionali rimane per contro un mistero. «È vero, l’euforia è stata soffocata dalle polemiche» riconosce Stielike. «Spero che le squadre, una volta scese in campo, riescano comunque a offrire un calcio di alto livello». Da libero entrato negli annali dello sport, il nostro interlocutore anticipa quindi la domanda sulla natura controversa di questa Coppa del Mondo. «Condivido molte battaglie, ma non tutte. E mi spiego. Trovo corretto far leva sull’evento - attraverso la FIFA e le stesse selezioni - per mettere pressione all’Emirato. Mi riferisco, ad esempio, al trattamento dei lavoratori migranti. A disturbarmi, per contro, è la pretesa di voler cambiare lo stile e le regole di vita del Paese. Accettando tuttavia di frequentarlo. Dov’è il rispetto?». L’ex campione tedesco, come molti addetti ai lavori, preferisce puntare il dito altrove. «Contro la FIFA e il voto corrotto del 2010. Senza quell’errore manifesto, forse staremmo parlando d’altro». Stielike, va da sé, non rinnega il periodo trascorso a Doha. «Ho allenato in Qatar tra il 2009 e il 2014. All’epoca, il calcio passava quasi inosservato. Parliamo di 200 persone a partita, nel migliore dei casi. Serbo però un ottimo ricordo del rapporto instaurato con i giocatori. Ho trovato molta educazione. Di più: il fatto di aprirsi, di accettare l’opinione altrui e di responsabilizzare i singoli, in queste realtà viene apprezzato parecchio». A separare le dinamiche a livello di club da quelle della nazionale c’è però un fossato. «Basti pensare che la selezione dell’Emirato può allenarsi e disputare partite mentre il campionato locale prosegue regolarmente» spiega Uli. «Di fatto, passano più tempo assieme i calciatori del Qatar che quelli nelle differenti società. C’è anche un’Academy e uno staff tecnico che, oramai da diversi anni, è composto da allenatori spagnoli». Da qui a creare l’exploit al Mondiale, tuttavia, ce ne passa. «Mancano altri fondamentali» aggiunge, prima di concludere: «Non escludo che i padroni di casa sappiano complicare la vita agli avversari. E magari vincano pure una gara. Ma passare la fase a gironi, no, non credo».