La mosca e lo struzzo

Il Tour de Suisse è scattato senza suscitare particolari picchi di entusiasmo, in Ticino. A differenza di molte altre edizioni, quest’anno gli organizzatori della corsa a tappe nazionale hanno snobbato il nostro cantone. Ci consoleremo con l’arrivo di tappa a Santa Maria in Calanca, al termine di una frazione che vedrà il gruppo partire da La Punt e scalare in seguito lo Julier e il San Bernardino.
Vicende cantonal-ticinesi a parte, il fitto calendario come spesso accade non dà una mano al Tour de Suisse. Schiacciata tra due monumenti come il Giro d’Italia e il Tour de France, la nostra gara a tappe soffre della concorrenza del Giro del Delfinato, che quasi tutti i big scelgono come prova generale per la Grande Boucle. Anche perché le strade sono quelle affrontate un paio di settimane più tardi nella corsa più importante al mondo. Il Tour de Suisse – a livello di cast dei partecipanti – deve insomma accontentarsi delle briciole. Di un pane di prima qualità, ma pur sempre di briciole si tratta. Se ci fosse almeno un atleta rossocrociato capace di battagliare per le prime posizioni il discorso cambierebbe, ma questa generazione di elvetici – nei giri – non ha molto da dire per quel che riguarda la classifica generale. Speriamo allora in qualche acuto di tappa.
Intanto – appunto – Tadej Pogacar, Jonas Vingegaard e Remco Evenepoel – i primi tre sui Campi Elisi un anno fa – si sono dati battaglia al Delfinato. E senza troppe sorprese ad avere la meglio è stato uno sloveno sempre più in formato cannibale da primavera a autunno inoltrato. Ha modificato il modo di correre degli ultimi anni, il corridore del team UAE. Dopo gli anni bui del ciclismo, i grandi leader attendevano gli ultimissimi chilometri per instaurare una parvenza di duello. Pogacar invece, anche quando indossa la maglia di leader, appena può attacca. E spesso e volentieri fa il vuoto. Vingegaard è in forma, ma lo sloveno sembra pedalare su un altro pianeta.
Spettacolo e paradossi. Lo sloveno entusiasma: e più entusiasma, più qualche umano dubbio sulle sue prestazioni inevitabilmente nasce. Anche se, come è sempre accaduto, a parte qualche mosca bianca nessuno si è mai concesso il lusso di andare in profondità. E va riconosciuta a Pogacar la presunzione di innocenza di un atleta che non è mai risultato positivo ad un controllo. Dal passato, però, pubblico e – soprattutto – osservatori e commentatori hanno imparato poco. Per proteggere il proprio orticello, si preferisce applicare la politica dello struzzo e nascondere la testa sotto la sabbia. Non si tratta di accusare senza prove, ma di andare a valutare con serenità e con dati alla mano le performance dello sloveno. I pochi che hanno il coraggio di farlo, vengono emarginati e derisi. Succedeva così anche ai tempi di Lance Armstrong, ricordate?
E, a proposito, Pogacar in salita sviluppa una potenza che ricorda quella del texano. I numeri dicono che lo sloveno regge i 490 watt per più di cinque minuti in salita, con picchi di 920 watt. Armstrong sviluppava una media di 400 watt, con picchi di 1.000. Dati simili, insomma. La questione è allora di sapere se i progressi nel campo degli allenamenti, dell’alimentazione e dei materiali possono compensare gli effetti del doping che faceva letteralmente volare Armstrong una ventina di anni fa. Interrogarsi non significa gettare le pietre sul mondo della «petite reine»: anzi, è esattamente l’opposto. Ne gioverebbe lo stesso Pogacar, se si potesse scientificamente dimostrare la sua correttezza. In pochi però lo fanno, travolti dall’entusiasmo di uno scatto su un colle di Prima categoria o per una lunga fuga in solitaria. Sì, è maledettamente difficile staccarsi dal passato. E trarre i giusti insegnamenti, dal passato.