Processo

«Considerava tutti quei soldi come suoi»

Condannato a 3 anni, di cui solo la metà da scontare, il «re dei ponteggi» riconosciuto colpevole di malversazioni finanziarie — Nei suoi confronti non è stata ordinata l'espulsione — L'accusa aveva chiesto 4 anni e mezzo di carcere, la difesa il proscioglimento
© CdT/Gabriele Putzu
Irene Solari
03.12.2025 17:31

«Usava il denaro delle sue ditte come se fosse suo. Considerava le aziende come tutte tasche del suo cappotto e spostava i soldi da una tasca all’altra come voleva, decideva lui cosa bisognava fare. E quando il giocattolo stava per rompersi, usava il denaro per crearsene uno nuovo». Non ha avuto dubbi il giudice Amos Pagnamenta nella lettura delle motivazioni della sentenza nei confronti del «re dei ponteggi», condannandolo a 3 anni di reclusione, di cui la metà da scontare e la metà sospesi per un periodo di prova di 5 anni. Nei suoi confronti non è invece stata ordinata l'espulsione, trattandosi di un caso di rigore.

«Noncurante delle conseguenze»

«La sua colpa è grave da un profilo oggettivo e soggettivo», ha proseguito Pagnamenta. «Sia in ragione delle grosse somme di denaro malversate a vario titolo, che del lungo arco di tempo nel quale i fatti si sono prodotti». Inoltre, per la Corte, l'uomo «ha agito a fini di lucro, senza esitare ad indebitare le sue società, noncurante delle conseguenze. Ha dedicato tempo ed energia a queste attività ed è stato interrotto solo dall’intervento della magistratura». A carico dell’uomo, ha ancora evidenziato il giudice pesano anche le numerose condanne pregresse. Non sono stati ritenuti nemmeno particolari motivi di attenuazione della pena, «visto che non ha mai collaborato, né si è mai assunto le sue responsabilità».

Durante il dibattimento tenutosi nelle scorse settimane l’accusa, rappresentata dalla procuratrice pubblica Petra Canonica Alexakis, aveva chiesto per l’uomo la condanna a 4 anni e mezzo di carcere oltre all’espulsione per 8 dalla Svizzera, con la conferma di tutti i punti contenuti nel corposo atto d’accusa. Mentre gli avvocati della difesa, Edy Meli e Marilisa Scilanga, si erano invece battuti per il proscioglimento dai principali capi d’accusa del loro assistito. L’imputato, dal canto suo, aveva respinto punto per punto gli addebiti tranne alcuni reati minori non contestati.

Ditte e milioni

Alla sbarra per malversazioni finanziarie - lo ricordiamo -il 50.enne kosovaro domiciliato nel Bellinzonese comparso davanti alla Corte delle Assise criminali, presieduta da Amos Pagnamenta (a latere i colleghi Emilie Mordasini e Luca Zorzi). Diversi i reati di cui è stato riconosciuto colpevole: bancarotta fraudolenta e frode nel pignoramento, oltre a cattiva gestione, falsità in documenti e frode fiscale. L’uomo era balzato agli onori della cronaca qualche anno fa nell’ambito dell’inchiesta sui permessi di soggiorno falsi che aveva coinvolto alcune imprese edili tra gli anni 2014 e 2016. A suo carico, come detto, malversazioni milionarie ai danni di aziende attive nel ramo delle costruzioni in Ticino (di cui la principale nel Bellinzonese) e in Svizzera interna. Aziende delle quali il 50.enne era titolare o co-proprietario. Se inizialmente si parlava di oltre 15 milioni malversati, dopo un lungo e travagliato iter giudiziario che ha visto l’annullamento di ben due atti d’accusa e nuove valutazioni peritali, nel terzo e ultimo atto d’accusa la cifra si è ridotta a 1,16 milioni.

«Voleva salvarle»

Sarebbero state proprio queste lungaggini - a mente della difesa - ad aver danneggiato irrimediabilmente la situazione economica e lavorativa dell’uomo, come avevano spiegato durante le loro arringhe Edy Meli e Marilisa Scilanga. «Non ha mai voluto che le sue aziende fallissero, anzi, ha sempre fatto tutto il possibile per poterle salvare, adoperandosi in ogni modo e mettendoci i soldi di tasca sua». I fallimenti non sarebbero quindi dipesi dal suo agire: «L’inchiesta ha bloccato tutto, conti in banca, fondi, aziende. Nessuno poteva più amministrarle e gli operai sono dovuti andare altrove. Qualsiasi società, anche la più solida, sarebbe fallita con queste restrizioni».

«Una scia di fallimenti»

Visone diametralmente opposta quella dell’accusa, secondo cui aprire ditte per farle fallire era un vero e proprio «modus operandi» messo in campo dal «re dei ponteggi». «Lasciava fallire le sue società, perdendo i soldi dei creditori», aveva ribadito Petra Canonica Alexakis nella sua requisitoria. «Sottraeva o occultava somme di denaro per diminuire fittiziamente l’attivo delle società, riversandole sui propri conti». Da lì poi - secondo la pp - i soldi venivano usati per alimentare nuove società «che l’uomo costituiva con una certa regolarità, e dove l’amministratore era sempre lui, che poi portava al fallimento». 

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