«Ha fatto tutto ciò che poteva per salvare le sue imprese»

«Non ha mai voluto che le sue aziende fallissero, anzi, ha sempre fatto tutto il possibile per poterle salvare, adoperandosi in ogni modo e mettendoci i soldi di cui disponeva. I fallimenti non sono dipesi dal suo agire». È questo il succo delle arringhe degli avvocati Edy Meli e Marilisa Scilanga, i quali si sono battuti per il proscioglimento dai principali capi d’accusa del loro assistito, il «re dei ponteggi», il 50.enne kosovaro domiciliato nel Bellinzonese che deve rispondere di malversazioni finanziarie. Oggi in aula, davanti alla Corte delle Assise criminali presieduta dal giudice Amos Pagnamenta (a latere Emilie Mordasini e Luca Zorzi), è stato infatti il turno della difesa dopo che l’accusa, rappresentata dalla procuratrice pubblica Petra Canonica Alexakis, martedì aveva chiesto per l’uomo una condanna a 4 anni e mezzo di carcere oltre all’espulsione dalla Svizzera per 8. La sentenza verrà pronunciata tra due settimane.
Sotto i riflettori
L’imputato - lo ricordiamo - era balzato agli onori della cronaca qualche anno fa nell’ambito dell’inchiesta sui permessi di soggiorno falsi che aveva coinvolto alcune imprese edili tra gli anni 2014 e 2016. A suo carico anche diverse accuse legate a malversazioni ai danni di aziende in Ticino (di cui la principale nel Bellinzonese) e in Svizzera interna. Aziende delle quali l’uomo era titolare o co-proprietario. La lista dei reati ipotizzati dalla pp nell’atto d’accusa include bancarotta fraudolenta e frode nel pignoramento (il principale), oltre a cattiva gestione, falsità in documenti, riciclaggio di denaro, frode fiscale, usura e minacce. In un secondo atto d’accusa al 50.enne è invece contestato il reato di truffa riguardante alcuni crediti Covid richiesti per una sua società d'Oltralpe.
Contestazioni e giudizi
Posizione diametralmente opposta quella dei patrocinatori dell’uomo che, come detto, hanno chiesto il proscioglimento per tutti i principali capi d’imputazione. Non sono per contro stati contestati l’appropriazione indebita di imposta alla fonte, per aver dedotto ad alcuni dipendenti della ditta bellinzonese le imposte alla fonte (per oltre 96 mila franchi) senza poi versarle alle autorità fiscali, e altri reati minori. Per questi fatti i difensori si sono rimessi al giudizio della Corte, chiedendo inoltre, qualora si giungesse alla condanna e a una pena detentiva nei confronti del loro assistito, che questa rientri nel periodo di carcerazione preventiva già scontato dall’uomo dal febbraio 2017 al gennaio 2018.
Addebiti «poco chiari»
Il principale atto d’accusa, a mente dei patrocinatori dell’uomo che ne hanno duramente criticato ogni punto, è sostanzialmente «poco chiaro e non approfondito sui diversi capi di imputazione» ed è arrivato, inoltre, al termine di un travagliato e lungo iter giudiziario. Iter che ha visto l’annullamento di due atti d’accusa per arrivare al terzo (quello attuale) con il totale delle malversazioni contestate al 50.enne che è passato dagli iniziali 15 milioni a 1,16 milioni di franchi. «Si tratta di un abbattimento del 90% dell’ipotesi di reato», ha evidenziato l’avvocato Meli. «Si fatica anche a comprendere come si possa parlare di fatture da 10 milioni quando la cifra totale del reato è di poco più di un milione. Si tratta di dati che fanno riferimento a quando ancora si parlava di un buco da 15 milioni». Anche per quanto concerne i crediti Covid, i legali hanno evidenziato come le pratiche siano state sbrigate nel rispetto delle regole e i soldi ottenuti utilizzati per il bene dell’azienda e per pagare il salario agli operai.
Principio di celerità violato
«L’imputato non ha mai voluto far fallire le sue aziende, come sostenuto dalla pp, anzi. Tutti i soldi sono stati movimentati sempre a favore delle sue società», ha rilevato dal canto suo Scilanga. «Quando è stato arrestato solo la ditta bellinzonese era fallita, le altre no», ha ripreso Meli. «Ovviamente l’inchiesta ha bloccato tutto, conti in banca, fondi, aziende. Nessuno poteva più amministrarle e gli operai sono dovuti andare altrove. Qualsiasi società, anche la più solida, sarebbe fallita con queste restrizioni». Sotto la lente dei due legali pure le lungaggini del complesso iter giudiziario: «L’inchiesta è iniziata nel 2017 e siamo arrivati adesso al processo», ha evidenziato Scilanga. «Siamo davanti a una violazione manifesta del principio di celerità».
Una vita rovinata
«L’imputato vive da più di 8 anni nell’angoscia, senza conoscere le sue sorti. Non ha un conto bancario, fatica a vivere e a lavorare. Lui che era titolare di diverse aziende ha perso ogni cosa, ha subito un danno economico milionario ed è per questo che le sue società hanno dovuto chiudere i battenti. Non è vero, come sosteneva l’accusa, che l’imputato vuole aprire società solo per farle fallire». Anche riguardo all’espulsione per 8 anni chiesta dalla pp, la difesa ha domandato che la misura non sia applicata o che sia sospesa. «L’imputato si trova in Svizzera da 35 anni, ha qui tutta la sua famiglia. Non avrebbe senso rimandarlo in Kosovo. La sua casa è qui». L’ultima parola è stata data all’imputato: «Ho sempre creduto e continuerò a credere nella giustizia».


