I numeri

Dazi, ma quali cantoni sarebbero più colpiti?

Gli Stati Uniti rappresentano il 12,8% del totale delle esportazioni ticinesi, mentre quasi un franco su due nel canton Nidvaldo è legato all'America per via di Pilatus
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Red. Online
07.08.2025 10:30

«In arrivo miliardi di dollari». Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, stava già festeggiando prima della mezzanotte di Washington. Le misure imposte dal tycoon, per molti Paesi, da oggi sono realtà. Anche, se non soprattutto, per la Svizzera, nazione che a meno di clamorosi annunci da parte del Consiglio federale verrà colpita da dazi doganali al 39%. Significa, riassumendo al massimo, che molti prodotti Swiss made – dalle capsule Nespresso alle caramelle Ricola, passando per gli orologi e il formaggio – verranno tassati con un’aliquota, appunto, del 39% all’ingresso negli Stati Uniti.

Fallita la spedizione guidata da Karin Keller-Sutter, presidente della Confederazione, e Guy Parmelin, «ministro» dell’economia, il cosiddetto martello tariffario in queste prime ore di giovedì assomiglia tanto, tantissimo a un cataclisma. Un cataclisma che colpirà tanto la Svizzera nel suo insieme quanto i singoli cantoni. In che modo? E con quale gravità?

Nessuno, anticipiamo, teoricamente verrà risparmiato. Il cantone destinato a patire maggiormente del nuovo orizzonte venutosi a creare, tuttavia, è Nidvaldo. Quasi un franco su due, a livello di esportazioni, è infatti legato al mercato americano (46,5% o, se preferite, 600 milioni di franchi). E il perché è presto detto: Pilatus, azienda aeronautica con base a Stans i cui prodotti sono apprezzatissimi negli Stati Uniti. «L’azienda, il principale datore di lavoro del nostro cantone, sarà fortemente toccata da dazi doganali così elevati» ha spiegato al Blick Othmar Filliger, consigliere di Stato nidvaldese a capo del Dipartimento di economia. A suo dire, un’aliquota al 39% rappresenta «una barriera commerciale molto elevata» nonché «una sfida enorme» per l’economia del cantone. Non a caso, le autorità hanno già annunciato di poter e voler offrire la misura del lavoro ridotto per venire incontro alle aziende più colpite.

Pilatus, è vero, dispone di uno stabilimento per l’assemblaggio finale a Broomfield, in Colorado. Un aspetto, questo, che potrebbe attenuare parzialmente l’effetto dei dazi. Parliamo, tuttavia, di aerei che vengono prodotti a Stans, dove vengono impiegate 3 mila persone. Il Blick, in questo senso, parla di paradosso. L’etichetta Swiss made, sinonimo di qualità, è diventata all’improvviso il simbolo dello svantaggio commerciale. «I più colpiti saranno i produttori di macchine, dispositivi elettronici, strumenti di precisione, nonché gli orologiai dei segmenti di prezzo medio e basso che esportano massicciamente negli Stati Uniti» ha affermato Hans Gersbach, co-direttore del Centro di ricerca congiunturale (KOF) presso l’ETH di Zurigo.

I grandi nomi dell’orologeria svizzera, scrive sempre il Blick, hanno sede principalmente nei cantoni di Vaud, Ginevra, Giura, Neuchâtel, Sciaffusa e Berna. È qui che vengono prodotti gli orologi Rolex, Vacheron Constantin, Patek Philippe, Jaeger-LeCoultre, Audemars Piguet, Tissot e Omega. I marchi di fascia alta, rispetto a quelli citati dal KOF, hanno margini confortevoli e i loro clienti sono generalmente meno sensibili alle variazioni di prezzo. D’altra parte, appunto, è probabile che un aumento significativo dei prezzi su marchi più convenienti allontani rapidamente molti acquirenti.

Martin Hirzel, presidente di Swissmem, ha lanciato un vero e proprio allarme: «Mi aspetto un’ondata di licenziamenti». L’associazione rappresenta l’industria dei macchinari, delle apparecchiature elettriche e dei metalli. Il canton San Gallo, un bastione della produzione di strumenti di precisione, potrebbe essere particolarmente colpito. Quasi un quinto delle esportazioni del cantone è destinato al mercato americano. Anche i cantoni di Zurigo, Argovia e Svizzera centrale sono fortemente coinvolti nella costruzione di macchine.

E ancora. L’Argovia, da solo, rappresenta quasi un quarto delle esportazioni svizzere verso gli Stati Uniti. Dieter Egli, presidente del Consiglio di Stato, non a caso ha seguito da vicino l’evolversi della situazione. «In generale, un’azienda non può compensare questo tipo di shock, né trasferire ai propri clienti costi aggiuntivi di quasi il 40%». Ahia.

La maggior parte delle esportazioni verso gli Stati Uniti riguarda il settore farmaceutico, attualmente esente da dazi doganali. Martedì, come noto, Donald Trump ha nuovamente minacciato di imporre tariffe severe all’industria a lungo termine. Il che, evidentemente, rappresenterebbe un duro colpo per Basilea Città, il principale cantone farmaceutico del Paese. Nel 2024, da questa regione, sono state esportate negli Stati Uniti merci per un valore di oltre 20 miliardi di franchi.

E il Ticino? Dati alla mano, gli Stati Uniti rappresentano il 12,8% del totale delle esportazioni, per una cifra pari a 10 miliardi di franchi. Anche il nostro è un cantone farmaceutico, di qui la reazione di Piero Poli, presidente di Farma Industria Ticino: «Non ci sono certezze, è difficile pianificare». A medio termine, e allargando il campo all’intera economia, per le aziende svizzere il punto sarà diversificare o, meglio, cercare nuovi mercati: più facile a dirsi che a farsi.

Secondo i calcoli del KOF, l’economia svizzera potrebbe contrarsi di almeno lo 0,3% a causa dei nuovi dazi statunitensi. E lo shock potrebbe essere ancora più grave. «I dazi danneggiano le relazioni commerciali tra le imprese svizzere e americane e in molti casi potrebbero farle finire. Se le catene di approvvigionamento collassassero e dovessero essere ricostruite, ciò potrebbe causare un calo del PIL anche del doppio» ha chiarito Hans Gersbach. Una riduzione dello 0,6% comporterebbe una perdita di circa 600 franchi per abitante.

Ma lo scenario potrebbe peggiorare ulteriormente. Se i prodotti farmaceutici svizzeri dovessero essere tassati al 39%, la contrazione economica raggiungerebbe almeno lo 0,7%. «In questo caso, c’è il rischio reale che la Svizzera entri in recessione», avverte Hans Gersbach.

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