L'approfondimento

Il Donbas tra slogan fuori dal tempo e dalla realtà

Vi sono tre strade da seguire, per capire perché il «separatismo filorusso» del Donbas, da tendenza minoritaria, diventa il pretesto di un conflitto che dura sino a oggi – L'analisi del ricercatore indipendente Luca Lovisolo
© KEYSTONE (EPA/SERGEY VAGANOV)
Luca Lovisolo
27.06.2023 14:45

Nella precedente puntata ci chiedevamo come il Donbas, le due regioni di Donec’k e Lugansk, sia potuto diventare la testa di ponte delle pretese russe sull’Ucraina. Una sera di primavera del 2014, seduto sul divano di casa, a Rivera, guardo con un occhio l’ultima luce del giorno che si allunga sulle alture di Medeglia e verso la Val d’Isone, compiacendomi che le giornate comincino ad allungarsi; con l’altro occhio sbircio il televisore, su cui passa il notiziario della rete di Stato russa Rossia24. Da qualche mese la Russia ha occupato la Crimea. Ad un tratto, il notiziario si interrompe per la pubblicità. Faccio un salto sul divano: non è il solito spot dei dolci liofilizzati o delle vacanze nei mari del sud. È un filmato un po’ retrò, con immagini bianconero su sfondo marroncino; simboli zaristi, sovietici e religiosi si alternano accompagnati da una marcia militare. Soggetto: la grandezza della Novorossija, l’antica «Nuova Russia» che si estendeva dal Donbas a Odessa. Ma è dal 1917 che il governatorato della Novorossija è sparito dalle mappe. E poi… quel territorio, dalla fine della Prima guerra mondiale, è parte dell’Ucraina.

L’insolito inserto pubblicitario può significare una sola cosa: dopo l’invasione della Georgia nel 2008 e l’occupazione della Crimea, la Russia non si fermerà. Ha deciso di rompere con il mondo delle Nazioni unite e del diritto internazionale. Quello spot, con i suoi toni emotivi e reazionari, deve preparare i russi a una lunga guerra, di armi e di parole. Per giorni, settimane, mesi, questo filmato e altri simili ripassano con frequenza asfissiante. Decido di partire per l’Ucraina, prima che sia troppo tardi.

«Si stava meglio quando si stava peggio»

Vi sono tre strade da seguire, per capire perché il «separatismo filorusso» del Donbas, da tendenza minoritaria, diventa il pretesto di un conflitto che dura sino a oggi. La prima me la indica un tecnico informatico sulla trentina, con il quale intavolo una conversazione in treno, viaggiando tra Kyiv e Kharkiv nell’inverno del 2015. Colto e ben preparato sul suo Paese, mi spiega che molti cittadini del Donbas hanno abbracciato la retorica filorussa all’insegna del si stava meglio quando si stava peggio, per una nebulosa nostalgia dell’Unione sovietica e dello Stato che provvedeva a tutto. «I giovani della mia generazione – mi dice – sono già cresciuti nel nuovo sistema. C’è una parte di popolazione, invece, che non riesce ad adattarsi. Quando Putin ha occupato la Crimea, nel Donbas tanti si sono lasciati attirare dalla retorica anti-ucraina, fondata sulla difesa della lingua russa, perché erano insoddisfatti del governo di Kyiv, anche se la maggioranza non sosteneva il separatismo. Poi la Russia ha cominciato ad armare i gruppi "separatisti" e il gioco si è fatto pesante. Allora, quelle persone hanno capito di aver sbagliato, ma ormai era troppo tardi».

La seconda strada da percorrere, per capire l’evoluzione del Donbas, la indica il politologo Sergej Kudelija in uno studio uscito pochi mesi dopo le manifestazioni di Majdan Nezaležnosti (Le fonti interne del conflitto armato nel Donbas, PONARS Eurasia, 351, settembre 2014). Nel Donbas, spiega Kudelija, non vi era odio fra comunità di lingua russa e ucraina. Il conflitto nasce per rabbia e per paura. «L’identità del Donbas è radicata nel suo essere "terra di frontiera" che si è sempre opposta ai tentativi di dominazione, sia da parte di Mosca sia da parte di Kyiv […] Il peso economico del Donbas faceva pensare ai suoi abitanti di avere diritto di assumere una leadership nel Paese, o almeno di avere una voce di peso nella politica ucraina», conclude Kudelija.

Non separatismo, perciò, ma volontà di contare di più nell’Ucraina indipendente postsovietica. Un desiderio non corrisposto dal governo di Kyiv, almeno agli occhi di molti, nel Donbas. Alla rabbia per questa incomprensione si aggiunge la paura per l’insicurezza sociale e per la crescita dei gruppi estremisti, tra cui il famigerato Pravyj Sektor. Queste formazioni non sono rappresentative della società ucraina, ma lo Stato, indebolito da corruzione e scarsa professionalità, fatica a rassicurare i cittadini, timorosi che gli estremisti diventino strumenti di imposizione di un potere centrale nazionalista e ucrainofono.

Il piano politico

Sul piano politico, nel Donbas e nel resto dell’Ucraina sud-orientale il Partito delle regioni è a lungo il più votato. È un partito di centro, ma sin dal 2004 la sua narrativa definisce i non russofoni «fascisti». In quegli anni torna la simbologia del nastrino di San Giorgio e del tricolore blu-rosso-nero. Il maggior successo del Partito delle regioni è portare a capo del governo e poi, nel 2010, alla presidenza della Repubblica, il governatore di Donec’k, Viktor Janukovyč. Con lui, il Donbas è rappresentato ai vertici dell’Ucraina. Emergono anche le magagne, però. Il sociologo Ilija Kononov spiega il sistema di potere che circonda Janukovyč, la famiglia. Dice Kononov: «Il metodo della famiglia era: appropriarsi delle industrie del Donbas, spremerle come limoni e buttarle via» (La crisi ucraina: ragioni, sviluppo e possibili conseguenze, Bollettino dell’Università di Kharkiv, nr. 1122, 2014). Di fronte agli scandali e alle inchieste, il Partito delle regioni si sfalda. Stretto fra le rivolte di Majdan Nezaležnosti e l’impopolarità che ne mette in forse la rielezione nel 2015, Janukovyč abbandona la presidenza e fugge in Russia. Siamo a febbraio 2014. Senza un partito di centro, il Donbas cade nelle mani delle formazioni minoritarie più radicali, che sostengono la secessione. La maggioranza moderata, disgregata, non è in grado di contrastarle. Eppure, senza il supporto di Mosca il separatismo non avrebbe avuto chance. Osserva ancora Kudelija: «Il canale televisivo del Donbass prese posizione a favore dell’unità dell’Ucraina. Praticamente tutta l’élite politica regionale rifiutò di sostenere i separatisti».

La virata si fa evidente nell’agosto del 2014. Sono a Kyiv, in quei giorni. Seguo i fatti ogni mattina dalla sala stampa del Centro media dedicato alla crisi del Donbas, al terzo piano dell’Hotel Ucraina. Per settimane lo Stato riconquista territorio. A un passo dal successo finale, da un giorno all’altro i separatisti riprendono forza. Hanno ricevuto il supporto decisivo dalla Russia. Mantengono il controllo su un terzo del Donbas e lo conservano tuttora, esteso con le occupazioni del dopo 24 febbraio 2022.

La propaganda

Imbocchiamo così la terza strada, per comprendere la metamorfosi del Donbas: quella della propaganda. Nella parte di regione controllata dai separatisti, gli abitanti ricevono solo canali che trasmettono una martellante narrazione filorussa, mista di nostalgia dei tempi andati, populismo e teorie complottiste. Gli stessi spot che vedevo io, dal mio divano, a Rivera, moltiplicati all’infinito. Circa un milione e mezzo di abitanti del Donbas fugge verso il resto dell’Ucraina (poche decine di migliaia verso la Russia). Molti li incrocio io stesso alla stazione di Kyiv, con i loro scatoloni e i bambini che piangono, nei miei viaggi di quegli anni. Nel Donbas occupato resta chi non può andarsene e chi si accoda al separatismo, per volontà o rassegnazione. È così che nei referendum del 2014, privi di ogni legittimità, in un clima di terrore, con i militi armati nei seggi e per le strade, il Donbas diventa «a maggioranza filorussa». Se anche i risultati non fossero truccati, non meraviglia che la maggioranza voti per la secessione. I sostenitori dell’Ucraina rimasti sul territorio rifiutano in massa di votare, raccontano molti testimoni. Nessun ente indipendente ha mai potuto accertare la veridicità degli esiti dei referendum e dei dati di affluenza.

Nel maggio del 2014 le due repubbliche autoproclamate del Donbas formano per circa un anno una confederazione, chiamata – sorpresa! – Novorossija. È l’ennesima dimostrazione che nella mente di Putin la presa del Donbas è solo l’inizio di una restaurazione imperiale che parte dall’Ucraina, sulle tracce di Caterina II, ma guarda molto più lontano.

Le vie attraverso le quali il Donbas, tra il 1991 e il 2014, si trasforma in un braciere di guerra, sono tortuose. I contrasti interni di una regione di frontiera sono il terreno ideale per la decisiva ingerenza della Russia, che li esaspera e sfrutta a proprio favore. I russi tentano il colpo anche a Kharkiv e a Odessa, anch’esse in prevalenza di lingua russa, ma falliscono: segno che l’elemento linguistico di per sé non è determinante. Eppure, la propaganda semplifica tutto nella retorica «ucraini "fascisti" cattivi contro russofoni "antifascisti" buoni». L’apice di questa narrazione è la leggenda del «genocidio di 14.000 russofoni uccisi dai "fascisti" ucraini confermato dall’ONU». I dati ONU si riferiscono in realtà al numero totale di vittime su tutti i fronti, negli otto anni di guerra nel Donbas, la cui miccia è stata accesa dalla Russia, non dall’Ucraina. Eppure, in Occidente, il dibattito si nutre ancora oggi di questi slogan fuori dal tempo e dalla realtà, mentre la tragedia del Donbas continua.

Questo approfondimento fa parte di una seria curata dal ricercatore indipendente Luca Lovisolo in esclusiva per CdT.ch. Per leggere la prima puntata clicca qui. Per la seconda clicca qui. Per la terza clicca qui. Per la quarta clicca qui. Per la quinta puntata (la prima sul Donbas) clicca qui.

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