Caro Papa, dovremo accontentarci delle preghiere?
La domanda del titolo è provocatoria. Molto. Ma è conseguenza di quanto si sta dicendo e ripetendo negli ultimi giorni nel mondo, soprattutto quello cattolico. La risposta, però, non è poi così scontata.
Gli appelli
«Papa Francesco è l’unico che potrebbe porre fine alla guerra». Quanti lo hanno detto e pensato. Il primissimo appello dall’Italia è arrivato in TV, il 9 marzo, a tredici giorni dall’inizio del conflitto. È stata l’attrice Anna Safroncik, ucraina naturalizzata italiana, a rivolgersi direttamente al Pontefice durante Le Iene: «Con la sola presenza, lei può costringere Putin a fermare le bombe e ad aprire finalmente un vero dialogo. La mia città (Kiev, ndr) in questi mesi si tingeva di bianco e di rosa per la fioritura, ora è dilaniata dalle esplosioni. Ed è lì, ad aspettarla». Vittorio Sgarbi si è quindi rivolto al Pontefice chiedendogli di andare dal leader del Cremlino per richiamarlo ai comuni «valori cristiani». Poi è stata la volta del regista cattolico Pupi Avati: «Sto vivendo con l’auspicio che il pontefice vada lì. Non riesco a immaginare alternative. Anzi, credo che avrebbe dovuto farlo già da tempo, con un gesto fortemente simbolico, come fece nella piazza deserta di San Pietro quando pregò il Signore di soccorrerci». E il giornalista Domenico Quirico, sulle pagine de La Stampa: «Credo che soltanto un grande gesto umano possa spezzare questa mischia sacrilega in cui l'Europa sale sullo scannatoio e come per un contagio di furore omicida tutti ormai si armano e gridano e minacciano e sembra impossibile salvare la ragione dalle allucinazioni che il flagello scatena». Già l’8 marzo il sindaco di Kiev, Vitaly Klitschko, aveva inviato una lettera a Papa Francesco: «Crediamo che la presenza di persona dei leader religiosi mondiali a Kiev sia la chiave per salvare vite umane e aprire la strada alla pace nella nostra città, nel nostro Paese e oltre». Gli ha fatto eco l'ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andriy Yurash: «Se il Papa venisse in Ucraina, la guerra si fermerebbe».


Martedì il Pontefice ha telefonato al presidente ucraino. «Il ruolo di mediazione della Santa Sede nel porre fine alla sofferenza umana sarebbe accolto con favore», gli ha detto Zelensky, che ha anche «ringraziato per le preghiere per l'Ucraina e la pace». La sera prima una lettera firmata da un gruppo di leader di varie confessioni religiose era stata affissa al muro esterno della Cattedrale russo-ortodossa a Gerusalemme: «Siamo addolorati nel vedere questa lotta che mette principalmente i cristiani ortodossi l'uno contro l'altro. Il Patriarca Kirill intervenga con Vladimir Putin affinché intraprenda immediati passi per fermare la guerra e cercare una soluzione pacifica».
Il ruolo di mediatore
La domanda rimane. Papa Francesco potrebbe davvero fermare la guerra? Essere la soluzione? La chiave di volta? Rappresentare una svolta? L’abbiamo girata a Markus Krienke, professore di Filosofia moderna e di etica sociale alla Facoltà di Teologia di Lugano e direttore della Cattedra Antonio Rosmini.
«Sulla possibilità che la sua voce possa essere influente rispondo senz’altro sì – ci dice -. Altrimenti non si spiegherebbero gli appelli». E mette l’accento sul ruolo della diplomazia vaticana che «sta lavorando anche quando noi non lo vediamo» e che «già in altre occasioni ha mediato». Si pensi solo alla stessa dichiarazione congiunta firmata a Cuba nel 2016 dal Papa e dal Patriarca russo ortodosso Kirill sulla crisi nel Donbass. «Deploriamo lo scontro in Ucraina - vi si leggeva tra le altre cose -. Invitiamo tutte le parti del conflitto alla prudenza, alla solidarietà sociale e all’azione per costruire la pace. Invitiamo le nostre Chiese in Ucraina a lavorare per pervenire all’armonia sociale, ad astenersi dal partecipare allo scontro e a non sostenere un ulteriore sviluppo del conflitto». Ma il punto più importante, secondo il professore, è la percezione del Pontefice come «figura morale, credibile, sopra le nazioni» in un momento in cui mancano figure politiche di un certo calibro. Il Papa è percepito sempre di più come «al di sopra di tutte le parti» e in questo il suo prestigio va oltre l’orizzonte dello stesso cristianesimo.
Accettato da entrambe le parti
Il Papa andrà in Ucraina, quindi? «Sulla realizzabilità e la possibilità che si rechi concretamente nel Paese, personalmente, non ci credo molto (anche se conosciamo Papa Francesco e se le vicende dovessero andare in un certo modo imprevedibile, non è neppure escluso)», aggiunge il professor Krienke. Prima di tutto per una questione di sicurezza. Ma se un modo per garantirla si potrebbe anche trovare, il discorso «a lato» è molto più ampio. «Si metterebbe in difficoltà la diplomazia vaticana. Paradossalmente, si chiuderebbe qualche porta». Una figura che intenda mediare diplomaticamente tra due Paesi deve infatti essere accettata da entrambe le parti. «Se il Papa andasse a Kiev, la parte russa si sentirebbe risentita. Si tratterebbe sicuramente di un segno molto forte, ma ritengo sia molto improbabile».


C’è pure da sottolineare che Bergoglio non si tira indietro e parla esplicitamente di «guerra». Anche se non mancano le critiche per l’assenza di ogni riferimento diretto alla Russia e a Putin. Insomma, c’è la condanna della guerra ma non viene puntato il dito. «Mi sono informato e anche durante la Seconda guerra mondiale non si usava chiamare i responsabili per nome – aggiunge il professore -. È una cosa che non si può rimproverare a Papa Francesco». La scelta delle parole, che non è mai casuale, ribadisce la volontà del Vaticano di restare equidistante dai due Paesi coinvolti nel conflitto. Perché «il bene più grande» resta di facilitare la mediazione. «Il Santo Padre si muove intelligentemente in modo da mantenere la sua posizione al di sopra delle parti. Altrimenti, seppur per un atto considerato “forte”, perderebbe la posizione di mediatore e il suo peso diplomatico».
Serve anche Kirill?
Parlando di segnali forti da parte del Pontefice, il professor Markus Krienke non si tira indietro: «Io gli credo quando dice che farebbe qualunque cosa pur di far cessare questa guerra». Il giorno successivo all’invasione dell’Ucraina, Papa Francesco si è recato personalmente all'Ambasciata russa presso la Santa sede. E il 16 marzo ha videochiamato il Patriarca ortodosso di Mosca Kirill. Il Papa ha convenuto con il Patriarca (o perlomeno questo è quanto è stato riferito dall’Ufficio stampa del Vaticano) che «la Chiesa non deve usare la lingua della politica, ma il linguaggio di Gesù» ed è stata messa in risalto «l'eccezionale importanza del processo negoziale in corso perché chi paga il conto della guerra è la gente». Considerato che il rapporto tra il Vaticano e il Patriarcato di Mosca non è mai stato idilliaco, «che il Papa voglia incontrare Kirill è un segnale fortissimo», ribadisce il nostro interlocutore, perché considera «l’alleanza» per la pace molto importante. «La speranza di Bergoglio è di trovare una linea comune con Kirill per chiedere la fine della guerra. Sul fatto che poi questa alleanza si concretizzi davvero, ho dei seri dubbi, non credo sia realisticamente fattibile. Ma quel legame “leggero, lieve” con il Patriarca va preservato, va mantenuto il dialogo».


Proprio ieri si è tenuto l’atto di «consacrazione al Cuore Immacolato di Maria», secondo la profezia di Fatima, di Russia e Ucraina. Lo stesso è stato compiuto da tutti i vescovi del mondo. «Noi dunque, Madre di Dio e nostra, solennemente affidiamo e consacriamo al tuo Cuore immacolato noi stessi, la Chiesa e l'umanità intera, in modo speciale la Russia e l'Ucraina, fa che cessi la guerra, provvedi al mondo la pace». Papa Francesco ha deciso di «consacrare all’Immacolato Cuore di Maria» i due Paesi in guerra e l’umanità intera «guardando alla Madonna come colei a cui affidarsi nel momento della prova». «Abbiamo disatteso gli impegni presi come Comunità delle Nazioni e stiamo tradendo i sogni di pace dei popoli e le speranze dei giovani». Poi la forte richiesta a Dio affinché «il coraggio del dialogo e della riconciliazione prevalga sulle tentazioni di vendetta e di prepotenza». E oggi, nell'udienza alla Federazione italiana Ricetrasmissioni, Bergoglio ha dichiarato: «Speriamo e preghiamo perché questa guerra vergognosa per tutti noi, per tutta l'umanità, finisca al più presto: è inaccettabile».
Secondo il professor Krienke un gesto forte, di unione, potrebbe essere «l’atto religioso congiunto in un luogo neutro che possa andare bene a entrambi, tipo una preghiera insieme, una veglia insieme, un appello di carattere religioso». Ma insistiamo. In attesa della diplomazia, dobbiamo accontentarci delle preghiere per la pace? Il professore della Facoltà di Teologia di Lugano sorride. «Per un fedele non è solo “accontentarsi”. Significa entrare in una solidarietà religiosa che si traduce in una voce forte che prega per la pace. E le dimostrazioni per la pace hanno persino contribuito a far crollare il muro di Berlino. Diventa una presa di posizione politica». Senza dimenticare le azioni concrete delle associazioni cattoliche che si sommano a quelle laiche, Markus Krienke sottolinea infine che «la nascita di movimenti di solidarietà trasversale ed ecumenica può diventare forte dimostrazione di forza e di potere, anche politico, in questo momento. Se Papa Francesco ci chiede di pregare – conclude -, nemmeno lui si accontenta solo di questo».