Guerra ed economia

«Il ritiro delle aziende occidentali? Una pacchia per gli oligarchi russi»

Un'inchiesta del New York Times fornisce qualche numero sul «piano d'arricchimento» messo in atto da Putin per tamponare l'emorragia dovuta agli addii delle compagnie occidentali
©ALEKSEY NIKOLSKYI/SPUTNIK/KREMLI
Red. Online
18.12.2023 17:00

Il panorama aziendale, in Russia, ha subito forti trasformazioni negli ultimi due anni. Complice, va da sé, la guerra in Ucraina.

Ne avevamo parlato mesi fa: l'abbandono in massa della Russia da parte delle aziende occidentali è stata, per gli oligarchi russi più vicini a Putin, una vera manna dal cielo. Sostenuti dal governo, molti imprenditori sono stati in grado di impossessarsi, con pochi «spiccioli», di intere catene dagli asset miliardari. È così che «McDonald's» è divenuto «Vkousno i totchka». Mentre «Starbucks» è ora «Stars Coffee». Non solo: Carlsberg è caduta nelle mani di Tiamuraz Bolloev, amico di lunga data di Putin, mentre Danone è finita fra le grinfie del nipote di Kadyrov. E poi le ex fabbriche Renault che, ora, statalizzate, producono veicoli d'era sovietica. Gli esempi sono tanti.

Ora, un'inchiesta del New York Times fornisce qualche numero in più sul «piano d'arricchimento» messo in atto, secondo il quotidiano statunitense, dallo stesso Putin.

Dal boicottaggio, la «bonanza»

Fabbriche e merce abbandonata, ristoranti e uffici chiusi. In due anni di guerra, rivela un'analisi finanziaria del NYT, le aziende occidentali hanno dichiarato oltre 103 miliardi di dollari di perdite. Perdite dovute, ovviamente, alle partenze. Ma quanto lasciato in territorio russo non ha preso polvere. Secondo documenti e testimonianze anonime raccolte dal giornale americano fra operatori in Russia e in Europa, il Cremlino controlla ogni uscita aziendale dal Paese. Le compagnie devono navigare in un sistema opaco per ottenere l'approvazione alla vendita, che viene sistematicamente piegata in favore dello governo russo o dei suoi amici. 

Tutto risale a inizio guerra, quando il crollo del rublo aveva spinto Putin a limitare al massimo i movimenti finanziari. La creazione di sistemi di controllo per l'esportazione di grandi capitali ha permesso a Mosca di guadagnare potere contrattuale, anche su affari privati. Pressate dalla comunità internazionale e soprattutto dai propri clienti verso un rapido abbandono della Russia, molte aziende hanno dovuto accettare «affari» che hanno favorito, soprattutto, la Russia stessa. In breve: grandi fette della torta occidentale sono andate agli oligarchi russi, allo Stato o a Putin in persona. Insomma, altro che boicottaggio. L'operazione, evidenzia il New York Times, si è tradotta in una vera «bonanza», una pacchia, per il Cremlino e i suoi amici, in grado di fagocitare quanto lasciato in tavola dalle compagnie europee e americane.

Di più. A inizio guerra, il sistema di controllo creato per evitare l'esportazione di denaro prevedeva una «tassa volontaria», richiesta per il privilegio di prelevare capitali dalla Russia in un'unica soluzione. Le aziende che sceglievano di non pagare l'imposta ricevevano i pagamenti a rate. Ma all'inizio del 2023, Putin ha smesso di dare loro la possibilità di scegliere. Le aziende, ora, devono pagare imposte sempre più salate, ricevendo sempre e comunque pagamenti a rate. Una soluzione che ha permesso a Putin di sfilare dalle tasche delle aziende occidentali qualcosa come 1,25 miliardi di dollari. Somma finita nelle casse dello Stato e investita nella guerra, ovviamente.

Il caso OBI

Nella sua inchiesta, il New York Times riassume nel dettaglio un caso, quello dell'azienda tedesca OBI. 

Poco dopo l'inizio della guerra, il gigante del bricolage e giardinaggio aveva fatto sapere che avrebbe chiuso i 27 negozi in Russia finché non avesse trovato un acquirente. Ma pochi giorni dopo, il 17 marzo 2022, il Ministero del Commercio russo ha inviato una lettera ai dirigenti locali di OBI. La lettera, esaminata dal Times, esortava i dirigenti a sfidare l'azienda e a tenere aperti i negozi, citando le leggi sulla protezione dei consumatori. Non c'erano «ragioni economiche» per la chiusura, scriveva il ministero. Pressioni e ostacoli applicate dal governo russo hanno spinto OBI a vendere tutti i propri asset in Russia la stessa primavera, il tutto per il prezzo simbolico di pochi dollari. L'acquirente, un uomo d'affari di nome Josef Liokumovich, ha superato i controlli della società e non è stato inserito in nessuna lista nera finanziaria.  Ma in meno di un anno la proprietà è passata di mano quattro volte, fino a terminare in quelle di Arsen Kanokov, senatore russo sotto sanzione.

Problemi futuri

Lasciare la Russia, dunque, fa il gioco del Cremlino? Non necessariamente. È vero, Putin e alleati sembrano aver ideato un modo per tamponare, sul breve termine, l'emorragia e anzi, sfruttarla per lucrare. Ma è il lungo termine che potrebbe nuocere maggiormente l'economia russa. Oggi, per il mondo, la Russia è un paria commerciale. E anche chi vuole fare affari con Mosca, ora più che mai sa di farlo a proprio rischio e pericolo, con tutti gli investimenti che potrebbero sparire in un attimo.

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