L'addio dei marchi occidentali? Un affare per i russi più ricchi
All'indomani dell'invasione russa dell'Ucraina, clienti e governi occidentali avevano esercitato una forte, fortissima pressione sui grandi marchi come Coca-Cola, Ikea e McDonald's. La richiesta? Abbandonare al più presto il mercato della Federazione, in risposta alla guerra scatenata da Vladimir Putin. Certo, non tutti – nel corso dei mesi – hanno aderito a quella che potremmo definire un'auto-sanzione volontaria: in realtà, come aveva rivelato uno studio dell'Università di San Gallo e dell'IMD di Losanna, soltanto l'8,5% delle imprese di Paesi UE o del G7 hanno effettivamente lasciato la Russia. Chi se n'è andato, ad ogni modo, al netto delle perdite finanziarie accusate ha pure lasciato un vuoto fra i consumatori russi. Un vuoto colmato, con fantasia e spirito copia-incolla, da diversi imprenditori locali.
Pochi milioni e si parte
All'inizio del 2022, prima del conflitto, Starbucks vantava 130 punti vendita in Russia, nella maggior parte dei casi gestiti in franchising. Ovvero, concedendo all'affiliato, in genere un rivenditore indipendente, il diritto di commercializzare i prodotti e i servizi del colosso del caffè. Dopo aver inizialmente sospeso le operazioni, a maggio la società statunitense aveva annunciato di voler vendere le proprie attività perché, appunto, se ne sarebbe andata del tutto dal mercato russo. Alcuni mesi più tardi, ecco Stars Coffee. La stessa cosa, in pratica, ovvero caffè sciacquato da bere in grossi bicchieroni, proprio come nei film americani, ma gestita dal rapper Timati, un amico di Vladimir Putin, e dal ristoratore Anton Pinskiy.
Di più, in un'intervista pubblicata dall'agenzia statale Tass i due hanno spiegato di aver acquisito tutti i beni di Starbucks in Russia per appena 500 milioni di rubli. Più o meno 5,3 milioni di franchi svizzeri. Una sciocchezza, se consideriamo che – secondo Interfax – nel 2021 la società madre russa di Starbucks aveva registrato entrate per quasi 54 milioni di franchi. Perché uno sconto così estremo? Semplice. «Abbiamo comprato un'attività chiusa che non portava profitti» le parole di Pinskiy.
Timati, dal canto suo, ha garantito un tocco di nazionalismo all'operazione. Pubblicamente non ha mai nascosto la sua vicinanza a Putin e, allargando il campo, al leader ceceno Ramzan Kadyrov. Nel 2015, addirittura, aveva pubblicato un brano intitolato My Best Friend Is Vladimir Putin mentre in una canzone filogovernativa chiamata Moscow si vantava che la capitale russa non organizzasse parate gay.
Quanto hai pagato? Poco, molto poco
Timati e Pinskiy sono due esempi di persone mediamente ricche che, con l'uscita dei marchi occidentali dalla Russia, hanno potuto fare ottimi affari. Acquistando aziende europee e statunitensi a prezzi clamorosamente bassi rispetto al reale valore.
Nel maggio 2022, appena due mesi dopo la chiusura temporanea dei suoi punti vendita annunciata da McDonald's, la catena di fast food ha raggiunto un accordo per cedere tutti i suoi ristoranti in Russia. Rimanere nel Paese, di fatto, non era «coerente con i valori di McDonald's». A rilevarli è stato un uomo d'affari, Alexander Govor, che già gestiva in franchising 25 punti vendita di McDonald's in Siberia. Dall'oggi al domani, si è ritrovato con 800 ristoranti e 62 mila dipendenti. Addio all'iconica M, largo a un nuovo logo e a nuovi menù e, soprattutto, benvenuto a Vkusno & Tochka. Govor, pure lui, ha dichiarato di aver pagato «molto meno del prezzo di mercato», descrivendo l'importo finale come una cifra «simbolica». McDonald's, dal canto suo, non ha mai commentato le esternazioni dell'uomo d'affari, spiegando tuttavia che le perdite legate all'uscita dalla Russia sarebbero comprese fra 1,2 e 1,4 miliardi di dollari. La società, quantomeno, si è garantita un'opzione per riacquistare i suoi ristoranti da qui ai prossimi 15 anni, secondo i funzionari russi. Govor, attivo in vari ambiti fra cui il petrolio, si è pure assicurato un'azienda finlandese che produce imballaggi per alimenti e bevande e che, ovviamente, aveva annunciato l'intenzione di lasciare la Federazione all'indomani dell'invasione.
Quel Big Mac simbolico...
Sulle ceneri, se così vogliamo chiamarle, di marchi occidentali che hanno lasciato la Russia sono nate molte, moltissime attività dicevamo. Ikea, fra gli altri, è stata sostituita dalla bielorussa Swed House. Molto, se non troppo simile al colosso svedese.
È difficile, ha spiegato l'amministratore delegato di McDonald's, Chris Kempczinski, prevedere quando l'azienda potrà tornare in Russia. L'uscita del doppio arco dorato dalla Federazione, oltre a una perdita economica per l'azienda stessa, ha lasciato un vuoto emotivo e simbolico fra i cittadini, in particolare i moscoviti. Proprio McDonald's, infatti, fu protagonista fra il 1988 e il 1990 di un clamoroso avvicinamento fra URSS e Stati Uniti. Nel 1988, il colosso a stelle e strisce ottenne dal Partito Comunista il permesso di iniziare l'attività sul territorio dell'allora Unione Sovietica: un segno che i tempi stavano cambiando nel Paese. Due anni dopo, il 31 gennaio 1990, il primo ristorante aprì le sue porte a Mosca in piazza Pushkinskaya, davanti a una folla pronta ad assaggiare per la prima volta il panino simbolo del capitalismo e, allargando il campo, un morso di sogno americano: il Big Mac. O Bolshoi Mak, come venne ribattezzato.
Proprio Vkusno & Tochka, ora, si è insediato in quel ristorante così evocativo. Dove prima c'era un ponte fra America e Unione Sovietica, oggi c'è molta meno enfasi. E una folla notevolmente ridotta, come ha spiegato Reuters.