La Russia che lavorava con l'Occidente
Lo abbiamo scritto. Quella volta, nel 1990, in una Piazza Pushkin ancora avvolta dalla cappa sovietica, oltre trentamila moscoviti si misero in fila, come soldati, davanti al primo McDonald’s aperto oltre la cortina di ferro. L’obiettivo? Un primo, gustosissimo assaggio dell’Occidente.
L’arrivo degli archi dorati, simbolo dell’America e del turbocapitalismo, all’epoca fu interpretato (ma anche vissuto) come un gesto distensivo. Della serie: sediamoci, mangiamo qualcosa e smettiamola con la Guerra Fredda. Più o meno, beh, andò così. Di lì a poco l’URSS sarebbe implosa e la Russia, pur mantenendo un certo autoritarismo politico, avrebbe abbracciato l’economia di mercato.
A distanza di trent’anni, il gigante del fast food ha temporaneamente chiuso le sue 847 sedi sparse nel territorio della Federazione. Lo hanno chiamato il grande esodo, ne ha parlato Sara Mauri sulle pagine del CdT.
Lo shock, a maggior ragione per i russi nati e cresciuti dopo la fine del comunismo, è stato enorme. Un salto all’indietro enorme, dalle conseguenze economiche e sociali pesantissime.
La crisi peggiore
Il mondo, l’intero mondo, è collassato dall’oggi al domani. Da una parte la
guerra, sanguinosa e terribile; dall’altra migliaia di lavoratori russi il cui
impiego, mentre scriviamo queste righe, è un grosso punto di domanda. Perché,
appunto, i marchi occidentali che li avevano assunti sono partiti.
L’economia russa, in difficoltà, sta già mostrando le prime, evidenti crepe. L’addio dell’Occidente, dai negozi ai ristoranti, potrebbe far schizzare a livelli preoccupanti il tasso di disoccupazione. Gli esperti, in coro, affermano: all’orizzonte, per la Federazione, si sta profilando la peggior crisi dalla fine dell’URSS.
Vladimir Gimpelson, responsabile del centro studi sul mercato del lavoro della Scuola Superiore di Economia di Mosca, è stato chiaro: «L’economia russa perderà rapidamente il capitale umano, e il tasso del suo deflusso potrebbe essere più alto che negli anni ‘90».
Yale, al riguardo, ha appena pubblicato uno studio nel quale sono elencate 250 aziende che hanno tagliato tutti i ponti con la Russia. Il risultato? Addio, all’istante, a decine di migliaia di posti di lavoro nella vendita, nella pubblicità e nei servizi finanziari.
Per molti settori, appare chiaro, sarà difficile riorientarsi solo sul mercato interno. E, banalmente, recuperare clienti.
Le sanzioni di Washington, Londra e Unione Europea stanno isolando sempre di più il Paese, mentre il rublo sta precipitando. Per dirla in termini semplici, ogni volta che tocca il fondo continua a scavare.
La narrazione del Cremlino
Il Cremlino, va da sé, propone una narrazione tutta sua circa lo tsunami economico
generatosi dopo l’invasione dell’Ucraina. Senza Mastercard, Visa e PayPal,
senza neppure American Express, ricevere pagamenti dall’estero ad oggi è
praticamente impossibile, anche perché la partnership con il circuito cinese
UnionPay è tutta da scoprire o quantomeno affinare. Eppure, Mosca la settimana
scorsa aveva rassicurato: la perdita di posti di lavoro a causa delle sanzioni occidentali
era calcolata.
«Abbiamo attraversato diverse crisi» le parole del portavoce Dmitry Peskov. «Ogni volta, sono state prese misure vigorose per ridurre al minimo il tasso di crescita della disoccupazione, sarà così anche questa volta». A proposito di misure, è di oggi la notizia di contro-sanzioni che Mosca applicherà all'Occidente.


Ora anche le sigarette
Secondo Gimpelson è presto, ancora, per fare previsioni o fornire cifre. Il
Cremlino, mercoledì, ha detto di confidare in perdite contenute. Che non
superino i «milioni».
Recuperare, certo, sarà complicato. Si pensa a una nazionalizzazione di svariate aziende, ma secondo alcuni è ipotizzabile piuttosto una sostituzione: fuori i marchi occidentali, dentro quelli asiatici e, in particolare, cinesi.
La transizione, ha ribadito l’esperto, provocherà comunque guai. Uno su tutti: l’aumento della povertà.
Secondo il gruppo del dissidente
politico Alexei Navalny, ad esempio, i russi stanno prendendo sempre più coscienza
della situazione. Un sondaggio condotto presso 700 moscoviti sembrerebbe
illuminante, in questo senso: dal 25 febbraio al 3 marzo, infatti, il numero di
persone che parla di «crollo catastrofico» in relazione alle conseguenze dell’invasione
è salito dal 40 al 60%.
C’è chi ha sottolineato, anche in Occidente, la disparità di queste sanzioni: colpiscono sì l’establishment, ma sembrano accanirsi altresì sulla gente comune. Il marchio giapponese Uniqlo, inizialmente, aveva sposato questa tesi scegliendo di rimanere in Russia, affermando che tutti hanno bisogno di vestiti. Giovedì, però, anche il brand nipponico ha fatto retromarcia e salutato la Federazione.
McDonald’s, al momento, non ha la minima intenzione di licenziare: continuerà a supportare i 62 mila lavoratori in Russia durante la chiusura, a un costo di 50 milioni di dollari al mese. Un gesto nobile e per nulla scontato. Detto ciò, si tratta di un colosso.
A pagare il prezzo più caro, insomma, potrebbero essere i lavoratori freelance come, citiamo il Moscow Times, gli artisti. In generale, a pagare lo scotto è tutta la Russia che non voleva minimamente una guerra così assurda. Una Russia senza il dolce caffè americano, senza gli hamburger, senza Occidente. Senza, notizia recente, neppure i maggiori marchi di sigarette che hanno deciso di sospendere le spedizioni verso la Federazione. Senza la libertà.