L'America dopo il voto: «I dem hanno ritrovato unità, ma Trump rimane molto forte»

Marco Sioli, associato di Storia della politica degli Stati Uniti all’Università Statale di Milano, analizza con il Corriere del Ticino il voto di martedì scorso negli USA, e in particolare il risultato di New York, città alla quale ha dedicato uno dei suoi ultimi lavori: Central Park. Un’isola di libertà (Eléuthera, 2023).
Professor Sioli, il 4 novembre i democratici non hanno vinto soltanto a New York, ma in tutte le realtà più significative: Virginia, New Jersey, Atlanta, Detroit, Minneapolis, Cincinnati. Che cosa significa questo voto?
«Il tema sul tappeto è stato sicuramente lo scontro frontale dei democratici con Donald Trump, così come ha mostrato la protesta del No Kings day del 18 ottobre. Ma c’è stata pure l’emersione di due anime del partito: una più radicale, l’altra più pacata. Da una parte Zohran Mamdani a New York, appoggiato dall’ala sinistra di Bernie Sanders; dall’altra Abigail Spanberger, che ho visto, in un video con Barack Obama, rappresentare, anche plasticamente, il blu del partito democratico contro il rosso repubblicano. Due anime che, questa volta, si sono unite. Se lo saranno anche alle elezioni per la presidenza, è un punto di domanda».
Obama, tra l’altro, è sembrato fare un po’ da ponte tra le due anime dem. Ha appoggiato anche Mamdani ed è stato, forse, il collante che sin qui era mancato tra i democratici».
«Sì, certo. Obama è uscito allo scoperto. Finora era rimasto un po’ dietro le quinte per ragioni diverse, tra cui la violenza politica che attanaglia gli Stati Uniti. Una violenza che non si placa. In questo senso, sono molti i commentatori che chiedono a Mamdani maggiore prudenza quando, ad esempio, è in mezzo alla folla. L’odio politico, purtroppo, ha già dimostrato più volte di essere letale».
Il sindaco eletto di New York è una novità quasi assoluta nel panorama statunitense. Che segnale trasmette la vittoria di un socialista, il quale si definisce tale, alla carica di sindaco della città più importante del mondo?
«New York è la città che stupisce. Sempre. Stupì, per esempio, Pier Paolo Pasolini, che ci andò nel 1966 e poi nel 1968. E continua a farlo. New York si propone come una città progressista, e questo senso del progressismo, che è forte, ultimamente ha caratteristiche differenti. Non è più soltanto bianco, come lo era agli albori del ’900. Dagli inizi di questo secolo è molto più caleidoscopico. Le etnie che compongono la città mostrano di voler uscire fuori dagli spazi in cui erano state relegate. New York è l’America multietnica che ha votato Mamdani».
Dalle prime analisi del voto nei vari Stati emerge come gli elettori latino-americani e gli elettori afro-americani siano tornati, questa volta, a scegliere in maggioranza i democratici. È un segnale direttamente legato alle politiche economiche di Trump? E, secondo lei, è qualcosa che può continuare nel tempo, almeno fino alle elezioni di midterm dell’autunno 2026?
«È possibile, sì. Alcuni ceti sociali e alcuni gruppi etnici hanno coltivato l’illusione di Trump più che altro per motivi ideologici. Adesso qualcosa sta cambiando. Ad esempio, per l’attività molto dura e violenta dell’agenzia che controlla l’immigrazione illegale, l’ICE. O per lo shutdown, il blocco degli stipendi ai dipendenti federali. Ho visto immagini di code alle istituzioni caritatevoli in Maryland. Sono sconvolgenti. Ma potremmo parlare della politica daziaria, o della ripresa dei test nucleari. E, ancora, dell’assalto alle terre pubbliche, di cui ho scritto diffusamente nel mio ultimo libro (In difesa della natura selvaggia, Eléuthera, 2025, ndr). Trump ha tagliato il 25% dei contributi ai siti dei parchi nazionali, generando una protesta fortissima».
Dopo la vittoria di Trump il partito democratico è sembrato a lungo stordito. Pensa che dentro queste elezioni ci siano i germi di una rivincita contro Trump oppure tutto sarà ancora difficile, complicato, lungo?
«Sarà complicato e lungo. L’indice medio di approvazione del presidente, rilevato da RealClear Politics, rimane invariato al 46%: basso, ma non bassissimo, mentre l’inflazione si è attestata al 2,8%. Certo, i problemi non mancano. Alcuni servizi non funzionano più, io stesso sto aspettando un libro che mi è stato spedito dagli Stati Uniti tre mesi fa. L’America è più isolata, ma resta forte, com’è sempre stata».
La lettura di un’America urbana contro un’America rurale, di un Paese composto di più Paesi, è ancora corretta? O questo voto induce a una riflessione diversa? Gli USA non sono New York, ma la Grande Mela è pur sempre la città simbolo della nazione.
«È difficile dirlo. Ieri si è votato in New Jersey, in Virginia, in Georgia, in Ohio e in Michigan. Vedremo che cosa succederà altrove, anche se non credo che qualcosa possa cambiare negli Stati profondamente rossi, come Alabama o Texas. Forse il Kentucky riserverà alcune sorprese. La White Supremacy, che è stata infusa da Trump, forse riuscirà a essere ancora coinvolgente per molte persone, ma una parte di elettorato - sia quello ispanico, sia quello afro-americano, si è stancata di questo iperattivismo e ipermaschilismo della presidenza Trump».
Pensa che i dem troveranno il candidato alla presidenza “sul campo” o sarà l’establishment a scegliere lo sfidante nel 2027? E il governatore della California, Gavin Newsom, può essere, in prospettiva, un nome forte?
«Quanto accaduto con Joe Biden, che si era autoproclamato candidato per poi cedere veramente il passo soltanto alla fine, ha mostrato la debolezza del partito. Newsom e la deputata newyorkese Alexandria Ocasio-Cortez potrebbero formare un ticket in grado di funzionare e di riunire le due anime dem. Saranno però le primarie a definire le candidature. Primarie vere, stavolta, non un po' artificiose com’è accaduto l’anno scorso».



