L'approfondimento

L’economia, mare in tempesta tra Unione Sovietica e Russia di oggi

In questa materia, prima dei numeri, contano persone, storie e culture: proviamo a capirne di più
© YURI KOCHETKOV
Luca Lovisolo
24.04.2024 14:00

Nella traversata fra l’Unione Sovietica e la Russia di oggi, attraverso il tormentato decennio di Eltsin, l’economia russa è un mare in tempesta. È la prova di quanto, in questa materia, prima dei numeri contino persone, storie e culture.

Un gelido gennaio dei primissimi anni Duemila, dieci anni dopo la caduta dell’Unione Sovietica, accompagnai in Ungheria come interprete un rivenditore di macchine utensili, in visita a una fabbrica di profilati metallici. Durante il comunismo, ci raccontò il direttore, i loro profilati venivano acquistati dall’Unione Sovietica. Visitammo l’officina: macchinari superati, linee di produzione guaste e abbandonate, lavorazioni largamente svolte a mano. Una produzione fuori da ogni criterio di efficienza, ma per il regime andava bene così.

Un’altra storia mi riferì un giovane tecnico dell’ex Germania Est che accompagnai più volte, quando prestava assistenza a macchine utensili in Italia. Mi raccontò di essere stato in Russia, chiamato da un cliente. Fu portato in un magazzino dove giacevano centinaia di macchine per lavorazioni metalliche, arrivate ai tempi dell’Unione Sovietica e ancora chiuse negli imballaggi originali. Un valore di svariati milioni di euro. «I russi – mi raccontò – mi chiesero se si poteva fare qualcosa. Purtroppo però, dopo quindici anni di abbandono, le loro macchine si potevano solo rottamare».

Lo scandalo del cotone: economia, Stato e politica

A questi episodi sintomatici si può aggiungere un caso noto come «scandalo del cotone». In Unione Sovietica la produzione di cotone avveniva in gran parte in Uzbekistan. Criterio determinante della gestione industriale Sovietica non erano i valori economici, ma le quantità di produzione assegnate dal Gosplan, l’ente che compilava i celebri piani quinquennali. Raggiungere e superare le quantità del piano quinquennale significava, per i dirigenti, guadagnare prestigio politico.

Per mostrare di aver adempiuto i piani, i funzionari uzbeki contabilizzavano quantità mai prodotte, con i cosiddetti pripiski. Era una pratica illecita, diffusa in quel mondo, sorretta da un circuito di corruttele che convinceva i contabili a chiudere un occhio. I pripiski permettevano di nascondere al governo centrale l’incapacità delle autorità locali di organizzare produzioni efficienti; per giunta, ne nascevano guadagni illeciti e opportunità di carriera. Funzionava perché nessuno controllava: lo «scandalo del cotone» emerse a metà degli anni Ottanta, nel clima di maggior rigore imposto da Jurij Andropov, perché qualcuno contò quanto cotone c’era davvero nei magazzini dell’Uzbekistan.

La filosofia economica del «comunismo reale»

Mosca ritirava i profilati ungheresi per ragioni politiche: a cosa servissero e a quali condizioni fossero prodotti non importava. Le macchine utensili prodotte in Germania est e arrugginite in Russia non erano nemmeno uscite dall’imballaggio: «La Germania est riceveva da noi [sovietici] materie prime e forniture pregiate, ma non le pagava. Le ricambiava in prodotti, era uno Stato fallito» dirà Michail Gorbačëv, in violenta polemica con l’allora leader della Germania est, Erich Honecker. Giunti in URSS, però, i prodotti dati in cambio dalla Germania est e da altri Paesi del Patto di Varsavia non servivano a nessuno. Non uno scambio economico, ma una finzione politica.

Questi tre esempi fotografano cos’era l’economia nell’immaginario sovietico: uno strumento di cui si ignoravano le regole più elementari, piegato a fini politici. Nelle aziende, tra i lavoratori, l’assenza di controlli e il disinteresse per la propria mansione si convertiva in lassismo. Evgenij Čazov, ministro della sanità dell’Unione Sovietica dal 1987 al 1990, ricordava: «Facevano tutti una vita tranquilla, lavoravano, prendevano lo stipendio, tornavano a casa e avanti così. Finché, un giorno, ci si accorse che non si produceva abbastanza».

L’industrializzazione dell’URSS e l’errore di Stalin

Negli anni Trenta Stalin imprime all’industrializzazione sovietica uno sviluppo decisivo. Lo fa, però, con la stessa brutalità con la quale gestisce la questione etnica, pensando di sciogliere i conflitti tra lingue e culture in un unico «popolo sovietico» attraverso la deportazione di intere popolazioni da una parte all’altra dell’Unione. Nell’industria, costruisce enormi stabilimenti specializzati in singole produzioni e li dissemina in tutta l’URSS, con l’intento di creare un circuito produttivo che renda interdipendenti le Repubbliche sovietiche e prevenga tendenze separatiste.

Non tiene conto delle tradizioni economiche locali, dei know-how disponibili e delle tante limitazioni oggettive. Ne nascono cattedrali industriali nel deserto, guidate da dirigenti mandati dalla Russia. Quando l’URSS si scioglie, nel 1991, gli ingegneri tornano in Russia e abbandonano le fabbriche a maestranze locali alle quali non hanno trasmesso le necessarie competenze. Il circuito economico pansovietico voluto da Stalin, già viziato di fondo, cade. Tra le quindici repubbliche, Russia compresa,  si ergono barriere doganali, sorgono economie con monete diverse e obiettivi divergenti. Intere produzioni cessano, perché lo smembramento spezza le catene di fornitura, le filiere produttive devono essere ricostruite da zero.

L’eredità sovietica: una condanna morale dell’economia

Sin dalla Rivoluzione d’ottobre (1917), ai sovietici veniva insegnato che proprietà privata e iniziativa economica erano da considerarsi immorali. Per giudicare le cause economiche esisteva – ed è sopravvissuta per un certo tempo anche dopo la fine dell’URSS – un’istanza chiamata arbitrato di Stato, un nonsenso per noi, in Occidente, dove l’arbitrato è un istituto di giustizia privata. Le controversie economiche erano viste come liti degradanti: si riteneva che i tribunali ordinari, occupandosene, avrebbero macchiato la loro reputazione, mi disse una giudice russa che incontrai durante un corso di aggiornamento.

Dopo la caduta del comunismo, l’unica esperienza commerciale sulla quale i russi possono costruire i loro scambi è quella del mercato nero, osserva nel suo Spiel mit dem Feuer Wolfgang Leonhard, pubblicista e docente vissuto tra Est e Ovest negli anni della Guerra fredda, autore di preziose memorie. Il mercato nero era gestito da cittadini che avevano contatti con l’estero, oppure da malviventi. Permetteva di acquistare beni ufficialmente non disponibili: un elettrodomestico di marca occidentale; l’ultimo disco di un gruppo rock europeo vietato dal regime; un medicamento introvabile. L’economia della nuova Russia, così, dai primi anni Novanta, nasce con la percezione che commercio e iniziativa privata siano illeciti e indecenti. Cade in breve nelle grinfie di organizzazioni criminali che finiscono con l’essere accettate da molti come attori naturali della nuova scena economica.

I « 500 giorni» e il gran rifiuto di Gorbačëv

Nel 1990 alcuni economisti non privi di capacità, capeggiati da Stanislav Šatalin e Grigorij Javlinskij, propongono a Michail Gorbačëv un «programma di 500 giorni» per introdurre in Unione Sovietica l’economia di mercato. È avviso di molti che le cose sarebbero andate meglio, se il piano fosse stato accettato. Gorbačëv, invece, lo respinge. Eltsin lo riprende poi, ma senza la necessaria determinazione. La privatizzazione delle aziende si dilunga per le resistenze dei funzionari contrari alle riforme; lo Stato si dissangua finanziando imprese improduttive; l’onnipresente industria militare si oppone alla diversificazione delle produzioni. Intanto, l’inflazione cresce di multipli rispetto all’adeguamento dei salari – quando vengono pagati. L’eccesso di liquidità, immessa per pagare stipendi e assecondare l’industria, causa il disastro dell’undici ottobre 1994, quando il rublo perde in un giorno un quarto del valore. Un’altra catastrofe segue nel 1998, mentre un prestito erogato dal Fondo monetario internazionale fallisce l’obiettivo di salvare il salvabile. Le riforme rimangono incompiute a causa di instabilità politica, interessi corporativi e resistenze conservatrici.

Due protagonisti dell’accidentata transizione della Russia all’economia di mercato, stimati anche in Occidente, sono tra i maggiori bersagli delle critiche: Anatolij Čubajs, economista dai diversi ruoli apicali, ed Egor Gajdar, consulente del governo e per breve tempo ministro delle finanze, autore del saggio La morte dell’impero, in cui analizza le cause economiche della fine dell’URSS. Un giudizio equo sul loro operato sarà forse possibile in futuro. Guidarono una missione senza precedenti storici: convertire l’economia socialista di una federazione fallimentare di 15 repubbliche in un’economia di mercato funzionante per la Russia. Una sfida dinanzi alla quale anche titolati economisti occidentali, chiamati a Mosca come consulenti, commisero errori di valutazione clamorosi.

Ben prima che nei numeri, i mali economici della Russia di oggi sono radicati nella cultura del passato sovietico e nelle sbandate della transizione alla modernità. Nascono lì fenomeni sociali ancora influenti, primo fra tutti gli oligarchi, sui quali torneremo. Nella prima Russia postsovietica sorgono anche imprese di successo, grazie alle iniezioni di capitale e know-how occidentali. Il passato, però, resta una zavorra pesante da scaricare.

Questo approfondimento fa parte di una seria curata dal ricercatore indipendente Luca Lovisolo in esclusiva per CdT.ch. Per leggere la prima puntata clicca qui. Per leggere la seconda puntata clicca qui. Per leggere la terza puntata clicca qui.