L'intervista

«L’ipotesi escalation non è da escludere»

Dopo l'attacco senza precedenti di Hamas in Israele, a colloquio con il docente dell'Università americana di Roma Andrea Dessì sui possibili sviluppi del conflitto
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Paolo Gianinazzi
09.10.2023 06:00

Come potrebbe evolvere il conflitto nei prossimi giorni? Ne abbiamo parlato con l’esperto di Medio Oriente, docente dell'Università americana di Roma e consulente scientifico dell’Istituto d’affari internazionali Andrea Dessì.

Israele è stato colto di sorpresa da questo attacco. Come mai?

«Sono vari i fattori da analizzare. Prima di tutto, i mesi di sommosse popolari in Israele e le proteste contro le riforme del Governo di ultra-destra di Netanyahu hanno portato a frammentazioni interne alla società che hanno sicuramente complicato la raccolta di intellicence da parte di Israele. Va anche detto che non è la prima volta che l’esercito israeliano viene colto di sorpresa. Ma, in maniera più generale, il punto di fondo è un altro: è difficile, se non impossibile, pensare a livello di strategia militare che un Paese come Israele possa continuare a tenere per decenni sotto occupazione sette milioni di palestinesi senza avere una reazione. Lo abbiamo visto purtroppo diverse volte nella storia. E questa volta è sicuramente senza precedenti, visto il livello dell’intervento di Hamas. Il fallimento d’intelligence più rilevante è stato quello di convincersi che la questione dell’occupazione poteva essere messa sotto coperta all’infinito».

Che ruolo potrebbe aver giocato, invece, il recente avvicinamento tra Israele e Arabia Saudita? L’accordo tra i due Paesi è ora dato per morto da molti analisti.

«Senz’altro Hamas ha interesse a far passare il messaggio che non si può pensare di andare avanti con questi accordi di normalizzazione a discapito della questione palestinese, che è la questione centrale del conflitto. È il tentativo di dare un messaggio all’Arabia Saudita e ad altri Paesi in fase di normalizzazione, ma anche a Israele stessa, che non si può continuare a far finta di niente. Detto ciò, non sono molto convinto che l’accordo tra Arabia Saudita e Israele sarà completamente dimenticato. L’attacco di Hamas complicherà questo processo e ci vorrà un po’ di tempo, ma poi questi Paesi riprenderanno il dialogo. Ad ogni modo, la ragione per cui Hamas ha fatto questo attacco penso abbia più a che vedere con la disperazione e la mancanza di qualsiasi orizzonte politico per un accordo diplomatico tra Palestina e Israele. È un tentativo di scombinare completamente le carte e riportare la questione dell’occupazione al centro dell’agenda mediorientale. Si riporta l’attenzione sul tema affinché la comunità internazionale non dimentichi la questione del diritto di autodeterminazione dei palestinesi».

Che probabilità c’è di escalation del conflitto?

«La possibilità che diventi un conflitto regionale è concreta. Tuttavia, il lancio di colpi di mortaio da parte di Hezbollah unicamente in precise località contese, fa pensare che anche Hezbollah, per via dei problemi interni in Libano, abbia sì interesse a dare sostegno alle forze di Hamas, ma allo stesso tempo debba calcolare molto attentamente la possibilità di provocare un’escalation. Inoltre, questo segnale di Hezbollah serve anche a far passare il messaggio che, se ci sarà un’escalation significativa a Gaza, si potrebbe aprire un fronte al Nord, con il Libano. Tuttavia, la questione centrale ora è quella di capire che cosa accadrà nella Cisgiordania occupata. Se si aprisse un fronte anche lì, ciò complicherebbe molto la gestione della crisi. D’altronde, una delle ragioni per cui Israele è stata sorpresa dall’attacco è che molte delle truppe erano state spostate in Cisgiordania per via dei problemi che accadevano a Jenin, Nablus e in altre località».

Quindi l’escalation è molto probabile?

«Sicuramente ci sarà a Gaza. Bisognerà vedere quanto andrà avanti e capire se ci sarà pure un intervento di terra da parte di Israele. Gli ostaggi che Hamas ha fatto a Gaza sono una polizza assicurativa affinché a questo intervento di terra ci siano dei limiti. Ma, come dicevo, la chiave di tutto sarà capire quello che accadrà in Cisgiodania. E quindi anche capire come si comporteranno le forze di sicurezza palestinesi che sono leali a Mahmoud Abbas e all’autorità nazionale palestinese. Capire, dunque, se queste forze entreranno in azione per fermare eventuali proteste, oppure se pian piano vedremo elementi delle forze di Fatah e dell’autorità nazionale palestinese prendere parte alle manifestazioni. Se accadesse, a quel punto potrebbe esserci un’escalation molto più importante, con la possibilità di parlare di una nuova Intifada. Una Intifada che sarebbe molto diversa dalla prima e dalla seconda: si avvicinerebbe molto di più a una guerra civile, vista la parità demografica tra israeliani ebrei e palestinesi musulmani: sette milioni da una parte e sette milioni dall’altra. Ciò sarebbe molto più difficile da gestire per Israele e per la comunità internazionale. Per questo anche l’esercito israeliano ha dato priorità – oltre a riprendere i kibbutz e le zone occupate dai miliziani di Hamas – a mettere un freno quello che molti si aspettano: un’escalation di azioni indipendenti da parte di coloni armati che potrebbero entrare in varie località palestinesi della Cisgiordania occupata. Ciò potrebbe scaturire un vortice di ulteriori scontri. Dunque, più che un conflitto regionale, a preoccupare è la possibilità che il conflitto si espanda internamente. L’umiliazione a livello politico e d’immagine che ha subito Israele per via dell’attacco è molto grave, quindi la priorità sarà di restaurare una sembianza di deterrenza militare nei confronti di Hamas. Ciò implica un intervento massiccio che potrebbe poi portare a ulteriori risvolti in Cisgiordania ed eventualmente in Libano. Ma tutto è in divenire».

C’è qualche remota possibilità che il conflitto si chiuda in pochi giorni, oppure potrebbe durare mesi?

«È molto difficile da dire. La speranza è che si possa arrivare a una specie di negoziato o cessate il fuoco nel giro di qualche giorno. Ma è difficile fare una previsione. Già trenta giorni sarebbe un periodo molto lungo che aumenterebbe possibilità di apertura di altri fronti. Speriamo dunque che non duri un mese. Ma bisogna comunque aspettarsi un’operazione militare abbastanza lunga, di diversi giorni. E poi bisognerà vedere anche la capacità di attori esterni – come Stati Uniti, UE, Egitto e Qatar – di riuscire a intervenire per riportare la calma. Questo conflitto si potrà risolvere sulla base di un cessate il fuoco. Ma poi bisognerà tornare a parlare della questione centrale, ossia l’occupazione israeliana, e cercare di resuscitare un orizzonte politico per questo conflitto, che non potrà risolversi militarmente».

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