«Se un volo costa 10 euro com'è possibile pagare in modo adeguato i lavoratori?»
L’aviazione è in subbuglio. Da tempo. In cielo, ma anche in terra. Manca personale, non c’è giorno senza cancellazioni di voli e, soprattutto, ovunque in Europa assistiamo a proteste e scioperi. L’ultimo, in ordine di tempo, è stato indetto dai piloti di SAS, la compagnia aerea scandinava. Ma che cosa sta succedendo, di preciso? O, meglio, che cosa chiedono i lavoratori del settore? Per capirne di più ci siamo rivolti a Livia Spera, segretario generale dell’European Transport Workers’ Federation, il sindacato europeo nell’ambito dei trasporti.
Partiamo
da una constatazione: molti articoli sottolineano l’improvvisa forza acquisita
dai sindacati, i quali – consapevoli della forte domanda per i viaggi post
pandemia – sfruttano il momento per chiedere condizioni migliori. È una spiegazione
troppo sbrigativa?
«Sì,
indubbiamente. Soprattutto, i problemi del settore sono preesistenti alla
pandemia. Certo, l’aviazione è stata colpita dal coronavirus. Tuttavia, ha pure
beneficiato di aiuti importanti dai vari governi. Come detto, parliamo di un
settore malato. Negli anni, le politiche europee (ma non solo) legate al
trasporto aereo sono state orientate per favorire la competizione e abbassare i
prezzi. La Commissione Europea, d’altronde, a suo tempo aveva chiarito che il
settore doveva essere più attraente per i viaggiatori. E così, sono spariti i
vincoli alla competizione fra aziende, tanto fra le compagnie aeree quanto nell’handling.
C’è stata, ancora, una forte spinta verso il low cost e il low cost estremo,
tant’è che anche le compagnie di bandiera hanno aperto filiali low cost.
Pensiamo al gruppo Lufthansa, o ad Air France. Filiali con sede in altri Paesi
e accordi collettivi a costi più bassi rispetto alla compagnia madre. Ecco,
questa tendenza al ribasso è stata portata avanti a spese dei lavoratori. Da un
lato, è vero, il trasporto aereo è diventato più accessibile. C’è stata
maggiore democratizzazione. Ma attenzione, perché dall’altro lato il diritto
alla mobilità – sacrosanto – non deve passare attraverso la riduzione dei
diritti e delle condizioni di lavoro. E invece è ciò che è successo».
Come
uscirne, allora?
«Come
sindacati, beh, noi diciamo: aumentate gli stipendi e fate in modo che i
viaggiatori paghino il giusto prezzo per un biglietto aereo. Non è normale pagare
di più il biglietto del treno dal centro città all’aeroporto rispetto al citato
biglietto aereo. Ma questa, appunto, è la situazione paradossale in cui ci
siamo trovati per anni. Una situazione che, di riflesso, ha spinto le forme meno
sostenibili di turismo».
Dicevamo
che la pandemia c’entra ma fino a un certo punto. Eppure, il coronavirus ha
lasciato ferite importanti, no?
«Premessa: vent’anni
fa, lavorare in aeroporto o per una linea aerea era qualcosa di prestigioso.
Qualsiasi professione nel settore lo era, a ben vedere. Oggi questo non vale
più. Per motivi ovvi: le condizioni di lavoro sono diventate usuranti e non c’è
compensazione economica. Prendiamo i lavoratori nell’handling, quindi impegnati
nella gestione dei bagagli. È un lavoro duro, che prevede turni e non paga
bene. In un periodo in cui vari settori lamentano una mancanza di manodopera,
se uno può scegliere va altrove. Molte persone licenziate durante la pandemia
non sono tornate nell’aviazione perché le condizioni non sono decenti. Di più,
siccome anche l’handling è stato liberalizzato ci sono più operatori in un
singolo aeroporto. Ma non c’è abbastanza lavoro per tutti. Perciò, i contratti
sono precari, spesso part-time. Se io devo svegliarmi alle quattro di mattina,
lavorare 15 ore a settimana e guadagnare 300 euro al mese, di fronte a un’altra
opportunità scelgo qualcos’altro».
Domanda
brutale: ma gli scioperi non rischiano di ottenere l’effetto contrario, ovvero
accrescere la rabbia e la frustrazione dei viaggiatori?
«C’è tutta
questa enfasi sul fatto che i sindacati stiano scioperando. D’accordo, ma lo
sciopero è sempre l’ultima spiaggia per un sindacato. E va ricordato che i
lavoratori, nei giorni in cui incrociano le braccia, non hanno diritto alla
retribuzione. Si sciopera quando non si riesce ad avere un dialogo con l’impresa,
quando non c’è un confronto sereno e aperto. La situazione attuale è molto
problematica, ma i problemi possono essere risolti attraverso il dialogo
sociale e la contrattazione collettiva. Parlo di stipendi, carichi di lavoro,
violenza anche».
In
che senso violenza?
«In tutto il
settore del trasporto passeggeri c’è stato un aumento drammatico degli episodi
di violenza nei confronti dei lavoratori. I passeggeri sono nervosi. La
mancanza di personale, gli aeroporti che all’improvviso si riempiono, insomma
il quadro generale non proprio sereno hanno fatto sì che, a rimetterci, siano
proprio i dipendenti. Il concetto di unruly passenger è noto in inglese,
ma la situazione adesso è diventata esplosiva. I tassi di violenza cui far
fronte sono molto più elevati».
Torniamo
a una frase: lavorare nel settore del trasporto aereo, oggi, non è come vent’anni
fa. Ecco, cosa significa oggi lavorare nell’aviazione?
«Noi abbiamo ancora
nella testa l’immagine classica di assistenti di volo e piloti. Persone
privilegiate. Non è così. E non è così da diverso tempo. Un’assistente di volo
di una compagnia low cost guadagna fra i 1.000 e i 1.200 euro al mese. E spesso
non ha nemmeno diritto a una bottiglietta d’acqua o a un pasto a bordo: deve
pagare, come un qualsiasi passeggero. Direi che i motivi per cui la gente vuole
scioperare o non vuole più lavorare nel settore ci sono tutti».
Altro
punto: durante la pandemia, nella speranza di salvaguardare i posti di lavoro,
erano stati offerti dei tagli salariali di parecchi punti percentuali. Molti
hanno accettato. Ora che è tornata la normalità, però, diversi vettori non hanno
più cancellato quei tagli. Come mai?
«In alcuni casi i tagli sono rientrati, in altri no. E questo perché, di fondo,
vale sempre l’idea che il lavoro debba costare il meno possibile. Negli Stati
Uniti, per contro, gli aiuti alle compagnie aeree erano vincolati proprio al
mantenimento dei livelli salariali e occupazionali pre-pandemia. Avevamo
chiesto la stessa cosa in Europa, ma niente. E così, ora, ci ritroviamo con
vettori che hanno beneficiato di aiuti statali, quindi di soldi dei
contribuenti, ma senza un ritorno dal punto di vista occupazionale».
Torniamo
ai viaggiatori frustrati dalle continue cancellazioni e dagli scioperi…
«Siamo
consapevoli, assolutamente, che dopo due anni di pandemia la gente voglia
andare in vacanza. Ma la responsabilità non è nostra, sono le imprese ad avere
l’onere e l’onore di gestire i flussi di lavoro. Imprese che, in queste
settimane, si difendono affermando che non si aspettavano una ripresa così
repentina e che durante la pandemia sono state costrette a tagliare».
Assumere
nuovo personale non è solo una questione di soldi, ma anche di tempistiche.
Vero?
«Nel trasporto
aereo non è una cosa che può succedere dall’oggi al domani. Anche per la
professione più semplice all’interno di uno scalo: possono volerci mesi e mesi
per effettuare i necessari controlli di sicurezza».
Può
farci un esempio concreto?
«Per formare un
controllore di volo servono due anni. E negli ultimi tempi, di fatto, non c’è
stata nessuna assunzione. Significa che chi è andato in pensione non è stato
sostituito. Ecco perché alcuni voli sono stati cancellati. Non solo perché
mancava personale nello smistamento bagagli o a bordo, ma perché mancano
controllori. L’intero sistema è stato perturbato. Ma è un sistema che troppo a
lungo ha ragionato su visioni a corto termine. Una conseguenza diretta delle
politiche del trasporto aereo degli ultimi vent’anni. Adesso c’è una tale
fragilità che il sistema non regge al minimo shock».
È
auspicabile che le compagnie facciano mea culpa, ma non tutti sono pronti a
farlo o lo hanno fatto.
«Altra premessa:
è auspicabile che, da una parte, le compagnie si impegnassero in un dialogo
aperto con i sindacati e, dall’altra, riflettessero su un cambiamento
strutturale del settore. Le politiche del trasporto aereo degli ultimi vent’anni
non hanno funzionato, è stato lasciato troppo spazio al mercato. Quanto ai mea
culpa, l’amministratore delegato di Lufthansa ha ammesso che il gruppo ha tagliato
troppo. Altri non hanno fatto questo passo. Se è vero che le compagnie
continuano a tagliare voli, è altrettanto vero che i prezzi dei biglietti sono
aumentati. Significa che i vettori stanno guadagnando soldi».
Il
CEO di Ryanair, Michael O’Leary, ha fatto capire che i
prezzi dei biglietti aumenteranno ancora…
«Ma dovrebbero
aumentare allo scopo di pagare meglio i lavoratori. Perché, oltre a
internalizzare i costi ambientali, le compagnie non internalizzano i costi del
lavoro? Come è possibile pagare in modo adeguato il lavoratore se un volo costa
10 euro? Questa tendenza ha spinto tutto il settore a un gioco al ribasso.
Quando si tocca il fondo, si comincia a scavare. Ma poi non si trovano più
lavoratori».
Qual
è il prezzo giusto per un biglietto aereo?
«Noi siamo a
favore di un prezzo minimo. La cosa è stata discussa già in Austria e Germania
e, quantomeno, consentirebbe di frenare questo gioco al ribasso. Un volo, ad
esempio, dovrebbe costare almeno 50 euro».
Ai
problemi affrontati sin qui si è aggiunto quello dell’inflazione. Come la
mettiamo?
«L’inflazione
tocca il trasporto aereo ma non solo, basti pensare agli scioperi nei porti o
nel settore ferroviario. In alcuni Paesi, semplicemente, gli stipendi non
aumentano a fronte, invece, di aumenti per cibo ed energia. Ci sono molte
rivendicazioni sul tavolo. E quando si trova un muro, vengono avviate una serie
di azioni che poi portano allo sciopero. In quasi tutti i Paesi, va detto, lo
sciopero è ben regolamentato. Non ci si arriva dall’oggi al domani. Ci sono
varie procedure. Ai passeggeri ribadisco che il caos attuale non è colpa
nostra. Sono le compagnie che hanno voluto tagliare e licenziare e che, ora, si
trovano completamente impreparate. Noi non vogliamo affossare il trasporto
aereo, non vogliamo che collassi. Sappiamo quanto è importante per l’occupazione
diretta e indiretta in Europa. Ma non possiamo accettare che avvenga qualsiasi
cosa».
Ultimo
punto: stupisce che a scioperare siano anche i piloti di SAS, in Scandinavia.
«Tutto il
settore, dicevo, è stato colpito. E tutto il settore è cambiato nel corso degli
anni. SAS ha delle società in Irlanda e in altri Paesi che operano a costi più
bassi rispetto al nucleo centrale. La tendenza low cost ha portato tutti ad
adeguarsi. E adeguarsi significa fare accordi in altri Paesi, che rispondono a
criteri più bassi in termini di condizioni di lavoro. È il problema attuale che
riguarda i piloti di SAS».