Dazi, ma che fine ha fatto Karin Keller-Sutter?

Che fine ha fatto Karin Keller-Sutter? Riformuliamo: perché, ieri, in conferenza stampa, si è presentato soltanto il «ministro» dell'economia Guy Parmelin? Di fronte alla notizia di un accordo o, meglio, della dichiarazione d'intenti per far scendere i dazi sulle esportazioni svizzere verso gli Stati Uniti dal 39% al 15%, beh, l'assenza della presidente della Confederazione davanti a microfoni e telecamere è stata notata. Anche perché, ricordiamo, era stata proprio Keller-Sutter, di concerto con Parmelin, a condurre le danze negli Stati Uniti inizialmente. Di più, aveva mantenuto aperto il canale con gli americani. Perché, allora, ha rinunciato ad annunciare assieme a Parmelin l'intesa raggiunta a Washington?
Per capirlo, evidentemente, dobbiamo fare un passo indietro e, con la mente, ripescare il 2 aprile scorso, il cosiddetto Liberation Day, durante il quale Donald Trump aveva lanciato una vera e propria guerra commerciale contro il mondo intero. L'obiettivo del presidente USA? Riequilibrare le bilance commerciali con i singoli Paesi, Svizzera compresa. Detto che, inizialmente, Berna si era vista affibbiare dazi al 39%, la diplomazia svizzera – con Keller-Sutter in testa – riteneva di aver fatto presa proprio su Trump e di poter ottenere un forte, fortissimo sconto. A inizio aprile, per dire, la stampa mondiale aveva lodato la presidente della Confederazione, ritenendo addirittura che una sua telefonata avesse spinto il presidente degli Stati Uniti ad annunciare una sospensione per 90 giorni dei dazi. Non solo, Berna confidava di aver strappato misure (al massimo) del 10%. Una seconda telefonata, per contro, a fine luglio, aveva suscitato polemiche a non finire, in Svizzera ma non solo, poiché Keller-Sutter, a detta della Casa Bianca, aveva irritato Trump. Di qui l'aumento dei dazi, annunciato guarda caso il 1. agosto, festa nazionale elvetica, dal 31% al 39%. Apriti cielo.
In realtà, Trump non era stato sfidato da Keller-Sutter, né «portato a scuola» a livello economico. Al contempo, il presidente USA si era sentito ferito nel suo orgoglio. «La Svizzera non ha alcun rispetto per noi» aveva tuonato il tycoon. A inizio agosto, nella speranza di abbassare i toni, Keller-Sutter e Parmelin si erano recati a Washington. Ma erano tornati a mani vuote.
A questo giro, e al netto di una spedizione, oseremmo dire, privata, con imprenditori e miliardari svizzeri che hanno riempito di regali e promesse Donald Trump in occasione di una visita nello Studio Ovale, Parmelin si è recato in solitaria a Washington, accompagnato dalla segretaria di Stato Helene Budliger Artieda e non, appunto, da Keller-Sutter. L'obiettivo? Finalizzare un accordo con il rappresentante al Commercio Jamieson Greer. La mossa, d'altro canto, non deve sorprendere. Nelle scorse settimane, Keller-Sutter aveva già mantenuto un profilo basso, bassissimo sul dossier dazi. Una scelta calcolata, nella speranza di non provocare una volta di più Trump.
Va letta, dunque, anche in questo senso la presenza del solo Parmelin, ieri, in conferenza stampa, una conferenza che hanno guardato, con interesse, pure da Washington. Un giornalista, in sala, ha chiesto se gli Stati Uniti non volessero più vedere né avere a che fare con Keller-Sutter dopo la famosa telefonata di luglio. Al riguardo, il «ministro» dell'economia ha risposto: «Non penso». Il dubbio, tuttavia, rimane. E permane.
Parmelin, per allontanare qualsivoglia illazione, ha ricordato che anche altri Paesi hanno evitato di «schierare» il capo di Stato. Sia durante le negoziazioni sia in occasione di annunci ufficiali. Di più, riallacciandosi alla fuga in avanti di alcuni mesi fa, quando Berna aveva detto di aver ultimato con Washington un accordo per dazi al 10%, Parmelin ha precisato che l'annuncio a questo giro è stato convalidato da Jamieson Greer prima di essere reso pubblico. Qualcosa, in ogni caso, è andato comunque storto: l'UDC, infatti, ancora prima che Greer annunciasse di aver chiuso positivamente i colloqui con Parmelin, si è congratulata per errore con il suo consigliere federale per quanto ottenuto in America.
