Confine

Violenze giovanili tra Varesotto e Ticino, «è la punta dell’iceberg di un profondo disagio»

Romano Pesavento, presidente del Coordinamento Nazionale Docenti della Disciplina Diritti Umani, commenta i crescenti casi di microcriminalità tra i giovani: «Le misure repressive curano il sintomo, non la malattia»
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Michele Montanari
29.07.2025 08:58

Risse, furti e danneggiamenti. In Ticino la percentuale di minorenni imputati per reati al Codice penale, nel 2024, è aumentata per il secondo anno consecutivo, passando dal 10,7% all’11,3%. In una recente serie di interviste realizzate dal CdT, i luganesi si sono detti preoccupati per quella che, secondo molti, è una deriva in atto nel mondo giovanile, con un aumento dell'aggressività che spesso sfocia nella violenza. Il pestaggio avvenuto negli scorsi giorni nei pressi della stazione di Cadenazzo è emblematico. Stando ai racconti dei testimoni, un uomo avrebbe molestato due ragazzine, per poi colpire con una bottiglia e numerosi calci un 32.enne svizzero intervenuto a difendere le giovani.

La capodicastero Sicurezza e spazi urbani Karin Valenzano Rossi, nel ricordare che «Lugano è ancora la città più sicura della Svizzera», con circa 36 reati ogni 1000 abitanti, non ha nascosto la sua preoccupazione per «l’aumento della violenza tra giovani, spesso nei dintorni di alcuni locali notturni». La municipale luganese ha però sottolineato che «quasi tutti i casi terminano con il fermo dei responsabili da parte della nostra Polizia, sia in autonomia che in collaborazione con la Cantonale. E questo poco dopo i fatti, segno che la PolCom è efficiente sul territorio. Gli individui coinvolti in episodi di violenza e situazioni di disagio anche giovanile, sono noti sia alla Polizia sia alla Magistratura e alla Magistratura dei minorenni, ma il sistema evidentemente non riesce purtroppo a evitare che tornino a commettere ulteriori episodi di violenza, ciò che rende particolarmente difficile e a tratti frustrante il lavoro delle forze dell’ordine e delle autorità». Se a Lugano non c'è un'emergenza, la crescente aggressività nel mondo giovanile non va certo sottovalutata, anche alla luce di quanto avviene appena oltre confine.

Nel Varesotto, ad esempio, la situazione appare ben peggiore rispetto al Ticino, con i media del Varesotto indaffarati a raccontare il dilagare della microcriminalità, che ha spinto le autorità a intervenire con misure repressive «anti maranza». Mentre i cittadini si sentono sempre più insicuri e le istituzioni politiche cercano una soluzione, non è facile contenere questa deriva sociale. E, anzi, la repressione sembra essere uno strumento effimero, in grado di alleviare momentaneamente il sintomo, senza curare la malattia.

Secondo il prof. Romano Pesavento, presidente del Coordinamento Nazionale Docenti della Disciplina Diritti Umani (CNDDU, un’associazione professionale italiana costituita da docenti che si  impegnano nell'educazione civica e dei diritti umani), il «fenomeno della crescente devianza minorile che attraversa, con tratti sempre più espliciti, il Varesotto e alcune aree del Canton Ticino, richiede un’analisi che superi le categorie interpretative della contingenza e del sensazionalismo mediatico. In qualità di  CDNNU riteniamo doveroso collocarci in una prospettiva sistemica e pedagogico-sociologica, che consenta di interrogare in profondità non solo le cause di tale fenomeno, ma anche i modelli culturali, istituzionali ed educativi oggi in evidente crisi».

Pesavento evidenzia come «quanto riportato dalla stampa – risse organizzate attraverso i social, episodi di violenza gratuita, aggressioni a pubblici ufficiali, uso strumentale dei luoghi pubblici per manifestazioni deviate del bisogno relazionale – non sia che la punta di un iceberg più profondo: l’affiorare di un disagio strutturale, diffuso, cronicizzato, che attraversa i giovani come sintomo di un’interruzione nel processo di costruzione dell’identità e del senso di appartenenza sociale».

Il professore prosegue: «Le scienze sociali, a partire dagli studi di Émile Durkheim fino alle più recenti riflessioni di Zygmunt Bauman e Bernard Lahire, ci invitano a non considerare la devianza come semplice trasgressione individuale, ma come esito di dinamiche collettive e disfunzioni strutturali. In contesti caratterizzati da quella che viene definita «anomia» – ovvero l’assenza di riferimenti normativi stabili e riconosciuti – l’individuo, e in particolare il giovane, può sviluppare comportamenti di rottura, non tanto per una deliberata volontà criminale, quanto per una reazione a una realtà percepita come opaca, inospitale, non generativa di senso».

Secondo il presidente del CNDDU, «l’esplosione di microcomportamenti devianti, come quelli registrati nelle stazioni ferroviarie del Varesotto o nei luoghi di aggregazione giovanile in Ticino, è interpretabile come un linguaggio non verbale attraverso cui i ragazzi cercano riconoscimento, visibilità e potere in un mondo che spesso li percepisce come «residui sociali», più che come soggetti in formazione. In questo quadro, l’adozione di provvedimenti repressivi – ordinanze «anti maranza», Daspo urbani, militarizzazione del territorio – può produrre effetti nell’immediato sul piano dell’ordine pubblico, ma rischia di agire in maniera meramente sintomatica, lasciando intatto il cuore del problema».

Pesavento inoltre evidenzia come «la scuola, intesa nella sua accezione più ampia di agenzia educativa e presidio di cittadinanza, rappresenta oggi uno degli ultimi baluardi di tenuta democratica e inclusiva. Tuttavia, essa non può essere lasciata sola. I docenti si trovano a fronteggiare, quotidianamente, forme di disagio che non sono solo comportamentali, ma esistenziali, spesso con strumenti inadeguati, senza un’adeguata formazione sul versante psico-pedagogico e senza un dialogo strutturato con le altre agenzie del territorio. La «comunità educante» di cui tanto si parla nei convegni e nei documenti programmatici, per esistere realmente deve poter contare su sinergie stabili e su investimenti concreti, sia sul piano umano che su quello economico. Come docenti della disciplina dei Diritti Umani, siamo convinti che l’educazione alla cittadinanza, al conflitto, alla legalità e all’empatia debba essere inserita organicamente nei curricoli scolastici, non come attività accessoria, ma come struttura portante del percorso formativo. La prevenzione primaria della devianza si realizza attraverso la costruzione di senso, appartenenza e dialogo: strumenti che non hanno l’immediatezza del controllo poliziesco, ma che costruiscono una società più solida, inclusiva e giusta».

Per il professore, infine, «non si può ignorare il ruolo delle disuguaglianze economiche, territoriali e simboliche che attraversano le biografie dei giovani coinvolti. I fenomeni di devianza non sono distribuiti in maniera casuale, ma si concentrano in specifici contesti ad alta fragilità sociale, spesso segnati da processi di marginalizzazione urbana, precarietà lavorativa delle famiglie, assenza di spazi culturali e sportivi. In questa luce, parlare di «gang» o «giovani pericolosi» senza affrontare le matrici strutturali del disagio significa alimentare una narrazione stigmatizzante, che produce ulteriore esclusione e chiusura».

Insomma, il disagio giovanile non andrebbe solamente contenuto. Le istituzioni, la politica, il mondo della scuola e della cultura dovrebbero cercare di comprenderlo. Solo in questo modo, conclude Pesavento, «potremo davvero trasformarlo».