Il commento

Benvenuto «Sanremo venti ventiquattro»

Anche a questo giro saremo attratti dai neon dell'Ariston, dalle sceneggiate, dalle polemiche e dalla cosiddetta competizione canora: è più forte di noi, che possiamo dirvi?
Marcello Pelizzari
03.02.2024 18:00

Stiamo per cascarci di nuovo. Ed è una meraviglia, credeteci. Sanremo. Sanremo. Sanremo. Riprendiamo un vecchio passaggio, datato 2022: noi viviamo (anche) per l’Ariston, la giuria demoscopica, «dirige l’orchestra Vince Tempera», Beppe o Peppe Vessicchio, le polemiche sterili, le incazzature e chi più ne ha più ne metta. Già, sta arrivando la settimana del Festival. Nella sua laicità televisiva, è quanto di più sacro esista. A giusta ragione, un collega ha sempre definito la kermesse sanremese «il vero Natale». Come dite? Il collega ha esagerato? Probabilmente sì. Ma chissenefrega. Nel dubbio, lasciateci godere di questa abbuffata. Ci sarà tempo per la dieta e le cose serie.

Piuttosto, tocca ringraziare mamma e papà, una volta di più. Sono stati loro, quando eravamo piccini, a trasmetterci questa passionaccia. A guidarci attraverso le canzoni e le serate. A concederci, come quando giocava il Milan in Coppa dei Campioni, al mercoledì, di stare alzati fino a tardi. Perché Sanremo era Sanremo. E così è rimasto, nella nostra testa. Un rito. Collettivo, ma anche privato. Intimo, perfino. Un rito fatto di preferenze, pagelle scritte a matita su un foglio credendosi membri di giuria, simpatie e antipatie. E poi discussioni animate a scuola, nei bar, più tardi al lavoro. Un rito capace di rinnovarsi, di anno in anno, pur rimanendo in sostanza sempre uguale. Una competizione canora con un contorno succulento che, spesso, tendeva e tende a diventare portata principale.

Come insetti, anche a questo giro siamo e saremo irrimediabilmente attratti dai neon dell’Ariston. Dalle maratone di Amadeus (inciso: resta, almeno per un’altra edizione, te lo chiediamo con il cuore in mano). Dalle stecche clamorose. Dai casi cavalcati con forza dalla stampa. Dal tifo da stadio in platea. E, ovviamente, dalle sceneggiate. Dormiremo poco, ma – ancora – chissenefrega. Per una settimana, largo alle luci scintillanti e all’edizione «venti ventiquattro». Non chiediamo altro. Nient’altro. Lasciateci godere di questa abbuffata, una turbo-sintesi dell’Italia di ieri e di oggi.

La cultura non è né alta né bassa, solo buona o cattiva. È l’eredità più grande lasciataci da Umberto Eco, probabilmente. Non assecondiamo certe esternazioni fatte anche alle nostre latitudini (sì, il Festival della canzone italiana è un tema in Ticino, diciamo pure soprattutto in Ticino) circa la pochezza o la volgarità di Sanremo. A volte, semmai, è più volgare l’altezzosità di chi si lancia in certe filippiche o analisi sociologiche. Come se nella vita ci fosse spazio unicamente per un certo tipo di arte. Oddio, siamo i primi a dirlo e ribadirlo: Sanremo è un carrozzone. Un eccesso. Un paradosso, addirittura, rispetto alla quotidianità di tutti i giorni. Ma, forse, è proprio per questo che ci è sempre piaciuto. La pazzia è una forma di normalità, diceva Pirandello.

Vent’anni fa, Paolo Meneguzzi – al secolo Pablo Meneguzzo – sfiorò il podio di Sanremo con Guardami negli occhi (prego). Provate a chiedergli se il cuore, allora, gli batteva forte. Al ritmo di un Festival esagerato e, di riflesso, bellissimo. Sì, stiamo per cascarci di nuovo.

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