L’attentato a Sigfrido Ranucci è un attacco alla democrazia: e la Svizzera non deve sentirsi immune

«Avrebbero potuto uccidere mia figlia». Sigfrido Ranucci, giornalista e volto della Rai, non ha usato giri di parole. Il chilo di esplosivo che ha distrutto la sua auto e, appunto, quella della figlia non era un «semplice» atto intimidatorio. Ma un attentato. E l'obiettivo, di riflesso, non era soltanto il giornalista e volto della Rai, bensì l'intera società democratica. Quella, per intenderci, che crede nella libertà di stampa e, allargando il campo, nelle regole. Nell'onestà, ecco.
Ranucci, mente del programma di inchiesta Report, è il simbolo del giornalismo investigativo in Italia. Con i suoi servizi, ha toccato temi scomodi e scottanti. La criminalità organizzata. La corruzione, politica e finanziaria. Le zone grigie dell'apparato pubblico. Negli anni, ha ricevuto minacce. Di più, non le ha mai nascoste e, proprio a causa di queste minacce, da anni vive sotto tutela. Lo stesso Ranucci, il quale si è detto, nonostante tutto, sereno, forte della vicinanza delle istituzioni, ha parlato di un «chiaro salto di qualità». Un salto tutto fuorché casuale, peraltro, considerando che sotto casa sua, tempo fa, erano stati trovati dei proiettili.
Al di là delle indagini e delle qualificazioni penali rispetto a quanto accaduto, c'è un discorso di fondo e di sostanza che merita di essere affrontato e sottolineato. Quel chilo di esplosivo aveva, quale scopo, la messa in discussione della libertà di stampa. E, con essa, il diritto dei cittadini a essere informati correttamente. Un diritto che, forse, diamo per scontato nel cosiddetto Occidente. Ma che, a ben vedere, e questa se vogliamo è una dimostrazione plastica, tanto scontato non è. Minare uno dei pilastri della democrazia, in modo così plateale per giunta, significa far vacillare anche il resto. Significa colpire, attraverso la voce di un giornalista, anche il meccanismo di controllo del potere. Significa dire, a Ranucci e a chi, come lui, ha a cuore il mestiere, «attenzione».
Ci agganciamo e accodiamo a chi, in queste ore, ha applaudito alle parole di Giorgia Meloni, primo ministro di un'Italia che, però, troppe volte e troppo spesso ha dipinto il giornalismo, ovviamente anche all'interno dell'area politica in cui vive e prospera Fratelli d'Italia, come «nemico del popolo» o strumento di chissà quali élite, al soldo di altri interessi. Detto che è necessario e sacrosanto difendere i giornalisti e il loro lavoro, non c'è nulla di normale nel dover vivere sotto scorta per aver fatto il proprio mestiere. E per aver scoperchiato determinate verità che giacevano nel sottobosco e nella penombra. Un aspetto, questo, che aveva affrontato anche Roberto Saviano in un'intervista concessa alla collega Jenny Covelli: «È un incubo di cui sono protagonista». Dicevamo che ci accodiamo a chi ha applaudito alle parole di Giorgia Meloni: «La libertà e l'indipendenza dell'informazione sono valori irrinunciabili delle nostre democrazie, che continueremo a difendere». Sia davvero così, però. Sia, questa difesa, concreta. Reale. Tangibile. Non solo, le istituzioni aiutino a ricreare una cultura civica, in Italia come altrove, non pensiamo che la Svizzera sia immune al fenomeno del giornalismo come «nemico del popolo», che riconosca il valore di Ranucci e di tutti i colleghi e, soprattutto, il loro contributo al benessere democratico.
L'informazione, volendo parafrasare un'espressione invero piuttosto abusata, non è né può essere mai un crimine. Chi tenta di silenziarla, come successo tante, troppe volte, è un criminale.