L'editoriale

Erdogan e la vittoria disegnata a tavolino

Alcuni analisti sono rimasti sorpresi dal fatto che il «sultano» domenica sia riuscito a incassare quasi il 50 per cento dei voti nonostante le gravi difficoltà in cui naviga l’economia turca
Osvaldo Migotto
16.05.2023 06:00

I turchi dovranno attendere il ballottaggio del 28 maggio per sapere se il presidente uscente Recep Tayyip Erdogan, alla guida del Paese da 20 anni, verrà estromesso dal potere grazie al leader dell’opposizione Kemal Kilicdaroglu, o se potrà invece governare per altri cinque anni. Il «sultano» nel voto di domenica è arrivato primo, smentendo i sondaggi diffusi prima del voto, ma non ha superato la soglia del 50 per cento necessaria per vincere al primo turno. Soglia che invece Erdogan aveva superato nelle presidenziali del 2014 e in quelle del 2018. L’uomo forte di Ankara sta perdendo colpi? Evidentemente sì. Del resto nelle legislative di domenica l’Alleanza popolare, formata dall’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) di Erdogan e da altri partiti di estrema destra e islamisti, ha ottenuto la maggioranza con 322 parlamentari su 600, ma rispetto al 2018 ha perso 22 seggi e ora non dispone più dei voti necessari per eventuali modifiche della Costituzione.

Ma per Kemal Kilicdaroglu, rivale di lunga data del «sultano», si tratta di una magra consolazione, considerato che nel ballottaggio a fare da ago della bilancia vi sarà Sinan Ogan, candidato di una coalizione di piccoli partiti di estrema destra, che nelle presidenziali di domenica ha ottenuto poco più del 5% dei consensi. Voti che con ogni probabilità il 28 maggio andranno all’attuale padre-padrone della Turchia. Ogan ha infatti condotto una campagna elettorale tutta incentrata sul nazionalismo e sulla lotta ai migranti siriani, arrivati in gran numero dopo lo scoppio della guerra civile nel loro Paese.

Il leader dell’opposizione Kilicdaroglu ha dunque poche possibilità di ottenere un numero significativo di voti addizionali in occasione del duello finale con Erdogan. Alcuni analisti sono rimasti sorpresi dal fatto che il «sultano» domenica sia riuscito a incassare quasi il 50 per cento dei voti nonostante le gravi difficoltà in cui naviga l’economia turca, il crollo del potere d’acquisto della popolazione causato dalla forte inflazione e il pessimo funzionamento della catena dei soccorsi in occasione del devastante terremoto che ha colpito il Paese lo scorso febbraio.

Il fatto è che Erdogan ha messo in piedi nel corso del suo mandato una democrazia sui generis dove manca la libertà di espressione, con i mass media critici messi a tacere, la difesa dei diritti delle donne e delle minoranze nei negati, mentre è pure sparita la divisione e l’indipendenza dei poteri. Per non parlare dell’enorme sostegno che tutti i principali organi dello Stato hanno dato, con metodi alquanto discutibili, alla campagna elettorale del presidente uscente e a quella del suo partito.

Un modo d’agire denunciato, tra l’altro, dall’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), chiamata a vigilare sul voto turco. Sul sito dell’organizzazione si può leggere che la popolazione «ha avuto una scelta tra alternative politiche autentiche e la partecipazione degli elettori è stata alta, ma il presidente in carica e i partiti al governo hanno goduto di un vantaggio ingiustificato, anche attraverso una copertura mediatica distorta. Le continue restrizioni alle libertà fondamentali di riunione, associazione ed espressione hanno ostacolato la partecipazione di alcuni politici e partiti dell’opposizione al processo elettorale».

Insomma, il «sultano», che ci tiene molto a difendere la sua immagine a livello internazionale, cerca di dare una parvenza di normalità al processo elettorale in corso nel suo Paese. Sicuramente tra i suoi elettori figurano molte persone convinte della bontà delle sue politiche, ma questo non basta a fare una vera democrazia. Erdogan appare dunque a un passo dalla sua vittoria disegnata a tavolino.

In questo articolo: