L'editoriale

Il filo sottile tra politica e giustizia

Ma quante ore ha dedicato negli ultimi anni Andrea Pagani a gestire i numerosi casi che hanno coinvolto i politici o la politica, sfociati in dossier finiti nelle mani della Procura?
Gianni Righinetti
06.11.2025 06:00

Quando a metà settembre il Tribunale federale ha decretato la definitiva destituzione degli ex giudici del Tribunale penale cantonale Siro Quadri e Francesca Verda Chiocchetti sembrava che il caso del «caos al TPC» fosse ormai definitivamente tramontato. Il precedente addio personale e spontaneo dalla carica e dalla presidenza da parte dell’allora numero uno Mauro Ermani era pure stato un tangibile segnale di quella che era la logica nuova via. Il fatto poi che i giudici destituiti con effetto immediato dal Consiglio della magistratura (CdM) fossero diventati più famosi e popolari per la loro vita privata che per le sentenze pronunciate nell’austera aula penale, aveva già contribuito a considerare il reintegro alla base del ricorso, come una strada piena di ostacoli insormontabili. E questo anche se l’Alta corte di Losanna avesse statuito diversamente. Intanto si attendeva la scadenza del concorso per dare vita a una sostituzione volta a garantire a quell’importante ramo del potere giudiziario un nuovo assetto volto a ricostruirne la credibilità: e presto partirà una bagarre partitica per quelle importanti cariche che contano e pesano. Ma ciò che nessuno avrebbe mai immaginato potesse accadere, è l’apertura di un procedimento penale a carico del deputato e presidente del Centro Fiorenzo Dadò, indagato per falsa testimonianza e denuncia mendace.

I fatti sono noti: Dadò aveva ricevuto da una mano amica (e, osiamo immaginare, interessata) le foto poco edificanti con bambini che Ermani (all’epoca appena scagionato dall’accusa di pornografia per l’immagine con i due falli) aveva inviato alla sua ex segretaria. Successivamente Dadò, portato il materiale in suo possesso in seduta alla Commissione Giustizia e diritti, dichiarava essere frutto di una comunicazione anonima e il dossier era così finito, ovviamente, al CdM. Quest’ultimo, già cognito delle dinamiche e in possesso di tutto, immagini comprese, si è interrogato e ha fatto una segnalazione contro ignoti al Ministero pubblico, nell’intento di escludere l’esistenza di una «talpa» al proprio interno. Dadò da quel momento ha assunto un atteggiamento molto duro sulla vicenda e su Ermani. E ora si trova a rispondere anche di denuncia mendace, ipotesi di reato che respinge, ma dalla quale per venire assolto dovrà dimostrare la sua buona fede nell’agire che gli viene rimproverato sin dagli albori della vicenda. Ora constatiamo che Dadò ha riconosciuto la propria responsabilità per quanto concerne la falsa testimonianza e l’ha motivata con la volontà di proteggere la sua fonte. Mentire non è mai un buon viatico, viene da chiedersi se non sarebbe stato più abile e onesto appellarsi alla facoltà di non rispondere, evitando di costruire un artificio puntualmente smascherato e che ora lo stesso Dadò rischia di pagare caro. In apparenza ad un prezzo più alto rispetto alle sue personali (e politiche) intenzioni.

A Dadò e al suo legale ora tocca un certosino lavoro, in attesa che l’inchiesta di Pagani giunga al capolinea e si possa capire cosa rischia il generoso e focoso politico valmaggese. Poteva proteggere e proteggersi meglio, mantenendo anche maggiore lucidità e prudenza nelle sue dichiarazioni dato che lui (e almeno un’altra persona) sapevano non esserci alcuna fonte anonima. La situazione in cui è finito Dadò ha indotto il leghista e ora presidente della Giustizia e diritti Alessandro Mazzoleni a mettere in dubbio l’onestà di fronte alla riconosciuta bugia sulla genesi di quella busta. Vero, ma urge rassicurare tutti: non è stata un’esclusiva, tanto che presto dovrebbero venire alla luce i riscontri dal profilo politico del caso Hospita, con la Lega e i suoi vertici protagonisti della raccolta di informazioni finite in un rapporto segreto. Del quale era stata negata a lungo l’esistenza. Fino a quando il documento è emerso davvero.

Tornando al caso in esame c’è chi chiede che i politici possano godere di una copertura delle fonti. Diritto che è riconosciuto alla stampa da parte del Codice penale. E questo per il ruolo intrinseco che hanno i media nell’informare il pubblico senza essere considerati come asserviti a una parte. La politica e i partiti perseguono però altri scopi e fini: non certo quello di divulgare super partes notizie. Ma nel caso in oggetto riconosciamo che il meccanismo giudiziario rischia di risultare per Dadò esageratamente punitivo. Parimenti non ci si può nascondere dietro a un dito e basterebbe scorrere la cronaca degli ultimi anni per registrare i numerosi casi che hanno coinvolto i politici o la politica, sfociati in dossier finiti nelle mani della Procura, spesso sulla scrivania del procuratore generale. Ma quante ore ha dedicato negli ultimi anni Andrea Pagani a gestire tutto questo? L’impressione è che tra politica e giustizia il filo sia troppo sottile. 

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