L'editoriale

Per andare d'accordo ci vogliono i soldi

È semplicemente un gioco delle parti, al Cantone, se manca per fare quadrare i conti, viene naturale caricare o scaricare su chi sta sotto, magari dopo aver subito lo stesso trattamento da parte della Confederazione
Gianni Righinetti
10.11.2025 06:00

Correva l’anno 2012, nel pieno dei bagordi per il carnevale, quando le due associazioni che allora raggruppavano i Comuni ticinesi, la Conferenza dei Comuni e Regioni di montagna (CoReTi) e l’Associazione dei Comuni urbani (ACUTI) sottoscrivevano l’impegno ad unirsi in matrimonio fondando «semplicemente» l’Associazione Comuni ticinesi (ACT). Promesse, strette di mano, finanche un passo storico tra chi si guardava da anni in cagnesco, con la CoReTi ormai fragilizzata di fronte al rafforzamento dei poli urbani e l’ACUTI svuotata tra il 2009 e il 2010, passata da 28 a 16 membri (con in primis la roboante uscita di Lugano). Una scommessa? Più che altro quella che già allora si presentava come una mossa disperata, alla luce delle tensioni tra i Comuni e il Cantone, nell’illusione (oggi comprovata) che uniti si era più forti. In teoria il motto regge, ma solo se c’è l’ingrediente essenziale: finanze sane e, quindi, nessuna tensione istituzionale. Ma in quegli anni si doveva pensare positivo per partito preso e si immaginavano i Comuni sotto uno stesso tetto, dialogare alla pari con un Consiglio di Stato fresco del ribaltone politico, con la conquista da parte della Lega della maggioranza relativa. Motivo d’orgoglio per via Monte Boglia che voleva mettere le mani un po’ su tutto, immaginandosi simile a Re Mida. All’insegna del «tutto quello che toccherò, d’oro diventerà». Alle Istituzioni era salito in sella Norman Gobbi, dando la sua impronta alla Polizia, osservando nel frattempo cosa fare per la Giustizia e pronto a dare vita alla benaugurante (nel concetto) «Piattaforma di dialogo» tra Cantone e Comuni.

Un riavvicinamento è stato concretizzato negli anni successivi con un bel tavolo ovale attorno al quale riunire più volte all’anno un buon numero di rappresentanti e successivamente lanciando il progetto «Ticino 2020». Tutto bello, peccato che sia tramontato praticamente prima del 2020, ma ci si sia ostinati a tenerlo in vita ancora per anni. Un fallimento completo e inequivocabile. I grandi progetti e le grandi teorie sono stati sovrastati dalla realtà della quotidianità, dalle difficoltà nel fare quadrare i conti e dall’abbandono di quell’idea di maggiore autonomia per i Comuni, predicata ma non applicata. Nel migliore dei casi si è visto il Governo dare con la mano destra e togliere con quella sinistra accollando oneri più o meno occulti. E oggi, nel 2025 ormai agli sgoccioli, siamo letteralmente ai piedi della scala. La disillusione è imperante e il pasticcio dell’arrocchino in salsa leghista (ma poi cucinato dall’intero Consiglio di Stato nell’ormai celebre e infinita riunione extra-muros dello scorso luglio), ci costringe una volta ancora ad osservare tutto quanto abbiamo sotto i nostri occhi o nel piatto confezionato dai cinque cuochi di stanza a Palazzo delle Orsoline, come una pietanza che magari solletica l’occhio, ma risulta insipida, scotta, sciapa. Speriamo almeno non siano stati usati prodotti scaduti. Come quello che porta ancora la data di «Ticino 2020». Ma ve ne sono altri, come la celebre «Giustizia 2018».

Alla luce dei conti preventivi 2026 dei principali poli del Cantone la voce degli amministratori comunali è, all’unisono, di questo tenore: «Cantone, basta!». Tutti contano almeno un rappresentante del proprio partito in Consiglio di Stato, nessuno è da considerare un rivoluzionario sovversivo. È semplicemente un gioco delle parti, al Cantone, se manca per fare quadrare i conti, viene naturale caricare o scaricare su chi sta sotto, magari dopo aver subito lo stesso trattamento da parte della Confederazione che sta all’apice della piramide. Un gioco al massacro che magari non avrà mai veri vincitori, ma ha certamente un solo perdente. Quel cittadino che, poco importa si tratti di Confederazione, Cantone o Comune, paga e deve stare zitto. Non ha alternative. O forse una ce l’ha. Votare diversamente alle prossime elezioni. Ma anche questa sembra essere un’illusione: girala o voltala, ma la musica pare essere sempre la stessa. Dopo anni di grandi «bla-bla», tavoli, progetti, discussioni e visioni, la situazione l’ha riassunta con pragmatismo negli scorsi mesi Norman Gobbi: «L’acqua è poca, ossia scarseggia, e la papera non galleggia». Magari lo si poteva anche scoprire prima, senza gettare lustri al vento. Insomma, senza mezzi finanziari ci si può scordare il quieto vivere istituzionale e ci si deve attendere che anche le istituzioni si facciano la guerra come accade tra i partiti. Una via d’uscita in realtà ci sarebbe, ma non c’è peggior sordo di chi non voglia ascoltare. Il margine di manovra in un Cantone che vive al di sopra delle sue possibilità, lo si trova unicamente abbassando l’asticella delle pretese, assumendosi responsabilità nello scegliere e decidere, nella consapevolezza che il «tutto sempre e comunque» non rispecchia il principio di realtà. Qui lo spazio è terminato. Avanti, con la scontata indignazione dei paladini del debito facile. Quando è il debito degli altri, ovviamente.