La Nazionale svizzera e il cliché della generazione d'oro

Si chiama «The Knowledge». È una rubrica del Guardian, dedicata al calcio e ai suoi aspetti meno noti, nella quale gli interrogativi dei lettori trovano una risposta. L’ultimo numero, per dire, cerca di fare luce sull’utilizzo - a livello giornalistico - del concetto di «generazione d’oro». Un concetto che nel tempo è stato appiccicato anche alla Nazionale svizzera. O meglio, a una parte dei suoi giocatori che tutt’ora veste la maglia rossocrociata. Lo stesso è avvenuto in diverse altre realtà. Il quotidiano britannico, non a caso, parla di «cliché». Facendo un esempio emblematico. «In occasione dell’ultima Coppa del mondo, la menzione “generazione d’oro” è stata associata ad almeno 13 squadre: Marocco, Australia, Senegal, Svizzera, Inghilterra, Giappone, Spagna, Belgio, Croazia, Canada, Ecuador, Stati Uniti e Francia». A dare consistenza all’idea, tuttavia, fu un’altra selezione: il Portogallo, in grado di conquistare il Mondiale Under 20 per due volte consecutive nel 1989 e nel 1991, imponendosi - sempre nell’89 - pure a livello europeo con la U16. Da quelle formazioni sbocciarono i vari Joao Pinto, Fernando Couto, Paolo Sousa, Rui Costa, Paulo Bento e Luis Figo. Grandi giocatori, che la storia ha puntualmente rimbalzato sul più bello. La semifinale di Euro 2000 è lì a ricordarcelo.
Precisato che - a posteriori - pure Olanda (1972), Brasile (1982) e Jugoslavia (Mondiali U20 del 1987) hanno calamitato la definizione, per curiosità siamo andati a scavare nei nostri archivi. Alla ricerca, appunto, del binomio Svizzera-generazione d’oro. Ebbene: la prima ricorrenza ricorda la Under 17 vittoriosa all’Europeo del 2002. Quella dei Senderos e Barnetta, per intenderci. Ma è un’altra U17, campione del mondo nel 2009, ad aver alimentato il mito. L’illusione, anche. Xhaka, Rodriguez e Seferovic - tutti classe 1992 - lanciarono le rispettive carriere proprio in Nigeria, dando una scossa al movimento e trascinando con sé pure l’annata 1991, composta da Shaqiri, Schär, Mehmedi e Zuber, giusto per fare qualche nome. Questo nucleo di profili talentuosi, affiancati a calciatori di grande spessore come Inler, Behrami, Lichtsteiner o ancora Dzemaili e Sommer, avrebbe dovuto regalare alla Svizzera i quarti di finale di un grande torneo. Non è mai successo. Non deve quindi sorprendere che di «generazione d’oro» si è scritto soprattutto in chiave negativa. O quantomeno disincantata. Peschiamo a caso, tra il 2016 e il 2020, nelle edizioni del CdT: «La tanto decantata generazione d’oro è formata da calciatori normali».
Oddio, l’acuto tanto atteso, alla fine, è stato piazzato a Euro 2020, quando la vecchia guardia si era defilata per lasciare spazio ad altri elementi nel frattempo giunti a maturazione: Elvedi, Akanji, Embolo, Zakaria. E infatti ci siamo illusi di nuovo, cascando (invero un po’ ingenuamente) nella trappola retorica allestita dagli stessi protagonisti. Quel «vogliamo scrivere la storia in Qatar», affermato a ogni piè sospinto da dirigenti e giocatori e poi trasformatosi in una pagina buia del calcio svizzero. Per chi c’era, comunque, il 6-1 incassato negli ottavi di finale «è solo un brutto ricordo», «fa parte del passato». Di più: gli ultimi mesi sono serviti ad ASF e staff tecnico per analizzare e individuare falle e punti deboli. Forse qualche errore. Da qui è giusto ripartire, azzerando per quanto possibile il contatore e ridando credito al gruppo e a chi lo allena. Verso Euro 2024, a testa bassa e senza il bisogno di scomodare inutili etichette. Vi basti sapere che per l’Argentina campione del mondo, a ridosso e durante il torneo disputato a Doha, il concetto di «generazione d’oro» non è mai stato sprecato.