Calcio

Murat Yakin non ha paura: «Non è vero che ora ho tutto da perdere»

Intervista esclusiva al commissario tecnico della Nazionale a due mesi dai Mondiali in Qatar: «In testa ho l'80% della formazione che esordirà - «Xhaka? Abbiamo dovuto ritrovare il giusto feeling»
Massimo Solari
16.09.2022 06:00

Murat Yakin ci accoglie alla Clé de Berne, a due passi dalla Bahnhofplatz. Ma dove siamo? «È un luogo di discussione, spesso sfruttato da personalità politiche» spiega il responsabile della comunicazione all’ASF Adrian Arnold. Ah, il ct della Nazionale un po’ politico e faccendiere dunque... «Ovviamente no» replica, con il consueto sorriso, l’allenatore elvetico. Che di filtri, anche a due mesi dall’esame più importante e insidioso, proprio non ne vuole avere.

Da oramai dodici mesi guida la Svizzera. Si sente più o meno stressato di un anno fa? E più o meno responsabilizzato?

«Il grado di responsabilità non è mutato. In fondo, in veste di allenatore della Nazionale ho una bella occupazione. Anche per questo motivo non mi sembra appropriato parlare di stress. Il calcio non è uno stress. A maggior ragione quando si è certi di poter lavorare con giocatori di qualità e uno staff composto da tante brave persone. Entrambe le componenti facilitano la mia funzione. Perché mai, dunque, dovrei alimentare la tensione alla quale siamo altrimenti esposti? No, personalmente preferisco rimanere focalizzato, cercando di portare in spogliatoio persino un pizzico di serenità. Il calcio, ribadisco, dovrebbe essere una gioia».

Ma un anno fa, in quanto ct neofita, aveva tutto da guadagnare. Ora, o almeno è l’impressione, ha tutto da perdere.

«Innanzitutto, non paragonerei la campagna di qualificazione dello scorso autunno con i prossimi impegni: la Nations League, che è molto importante, e i Mondiali. Parliamo di competizioni e fasi molto diverse fra loro. Ciascuna da prendere come viene. Per esempio, non possiamo ancora sapere cosa accadrà in Qatar. Cruciale, piuttosto, è avere fiducia. E lavorare con questo sentimento positivo. Pensare di perdere o fallire non è nella mia natura. Al contrario sento di essere una persona felice. Così come la mia squadra deve esserlo per aver già raggiunto un grande traguardo: l’accesso diretto alla Coppa del Mondo. Ciò non significa accontentarsi. Anzi. Se intendiamo progredire - e, sì, è quanto vogliamo - servono nuove idee. Serve creatività. Perché ottenere un risultato senza rinnovare i propri obiettivi rischia di essere controproducente».

Come è cambiato l’uomo Yakin, in questi dodici mesi?

«La verità è che alle spalle avevo già 15 anni di esperienza. Un periodo, questo, lungo cui ho imparato molto. Insomma, conoscevo e conosco molto bene cosa comporta il mio ruolo: giorni belli e momenti brutti, anche se fortunatamente ne ho vissuti pochi. In carriera ho altresì potuto festeggiare diversi successi e tutto questo bagaglio mi è servito per presentarmi in Nazionale con una grande fiducia in me stesso. Poco importa, insomma, se il margine a disposizione - inizialmente - era poco. Sul piano personale, molto si gioca sulla pianificazione. In qualità di selezionatore, infatti, affronti periodi molti intensi, seguiti da settimane dove il tempo per sé di certo non manca. Si tratta quindi di trovare il giusto equilibrio. E di farne tesoro, mantenendo un atteggiamento strategico in vista degli impegni futuri».

Mai, prima di un grande torneo, così tanti giocatori della Nazionale svizzera avevano cambiato squadra. È una buona notizia o i numerosi cambiamenti la preoccupano?

«Prendete l’ultima finestra di Nations League. I giocatori che si sono presentati all’appuntamento si trovavano in condizioni molto differenti fra loro.E, oltre agli infortuni, in alcuni casi la mente era chiaramente occupata da pensieri di mercato. Va da sé, per i risultati sul campo non è stato ottimale. Sì, è stato un fattore che ci ha tolto molte energie. Tornando ai trasferimenti estivi, sono soddisfatto delle soluzioni trovate da chi ne cercava una. E pure piacevolmente sorpreso dai cambiamenti che hanno interessato alcuni leader del gruppo. Su tutti Manuel Akanji, Remo Freuler, Haris Seferovic, Breel Embolo e Denis Zakaria».

Il fatto che più giocatori ora militino in Premier League, è un buon segno pensando alla qualità e al ritmo del campionato inglese?

«Assolutamente. In Inghilterra giocano i calciatori più forti e operano i migliori allenatori. Per tacere dalla pressione, del pubblico e mediatica, con la quale si è tenuti a convivere. È il massimo che un giocatore possa sperimentare. E, sì, sono certo che potrà fare bene anche alla Nazionale svizzera. I giovani emergenti del movimento rossocrociato avranno dei modelli ai quali ispirarsi, consapevoli che la Premier - con il giusto percorso di crescita - è un traguardo raggiungibile».

Renato Steffen? Ha qualità e ambizione: se gioca in Bundesliga o per il Lugano non fa alcuna differenza

Ha visto la serie All or Nothing sull’Arsenal? Granit Xhaka emerge come il vero leader dei Gunners e questo inizio di campionato parla per lui…

«La cosa non mi sorprende affatto. Anche se tendiamo a darlo per scontato. Al contrario, credo che la Svizzera debba essere felice e fiera di poter contare su un elemento come Granit. Un giocatore, per intenderci, che sa come si giocano le grandi partite, conoscendone il ritmo e grazie all’enorme fiducia nei propri mezzi. Se ripenso all’ultimo anno, Xhaka aveva bisogno solo un po’ di tempo per ritrovare il filo del discorso. Non dimentichiamo che aveva saltato l’intera fase finale delle qualificazioni mondiali, complice il coronavirus e il grave infortunio al ginocchio. Mentre in marzo la sfida contro il Kosovo - la sua centesima in rossocrociato - non gli ha permesso di concentrarsi al 100% sul calcio. Si trattava di ripristinare il giusto feeling. Comunque siamo rimasti calmi. Ne abbiamo parlato. E in giugno, in Nations League, abbiamo scovato il giusto punto d’incontro. È vero, i primi risultati sono stati deludenti. Contro Spagna e Portogallo, però, il modo in cui ci siamo proposti con Xhaka nel ruolo di leader e al contempo playmaker è stato fondamentale. Di sicuro lo è stato per me».

Il ruolo di Granit a Londra è cambiato. Nelle ultime gare ha trascorso più tempo a ridosso dei 16 metri avversari che nel cuore del campo. È immaginabile cucirli addosso una veste così offensiva anche in Nazionale?

«Ne abbiamo parlato a lungo, in occasione di due incontri personali a Londra. Ho tra l’altro assistito a due partite dell’Arsenal con Xhaka chiamato a ricoprire più ruoli: dalla mezzala al terzino sinistro. Credo che Granit abbia dimostrato la sua affidabilità dove questa veniva richiesta in quel frangente. Il tutto senza venire meno alle proprie responsabilità di leader. Ora, per quanto riguarda il ruolo più offensivo, è probabilmente anche una questione di concorrenza in squadra. Su questo aspetto, in Nazionale è comunque tutto molto chiaro. Abbiamo la possibilità di comporre l’organico con due giocatori per ruolo. E in tal senso Xhaka è il solo in grado di ricoprire il ruolo di numero 6. Grazie alla sua esperienza, alle sue doti di trascinatore e dominatore, che ne fanno una guida per i compagni. Quando Granit non c’era, naturalmente, è stato rimpiazzato. Ma non era la stessa cosa. E, come detto in precedenza, una volta che il giocatore ha trovato il suo ruolo in questo nuovo sistema, la sua insostituibilità è stata lampante».

Quale trasferimento l’ha colpita maggiormente: Manuel Akanji al Manchester City o Renato Steffen al Lugano?

«...(ride, ndr.). Non sono stato coinvolto direttamente nei due trasferimenti. Ma ne ero informato. Entrambi i giocatori volevano conoscere la mia posizione in merito. E al proposito sono stato onesto. Nel caso di Akanji è servita tanta pazienza. Che alla fine ha pagato. Un’operazione del genere non avviene tutti i giorni per un calciatore svizzero. Ho seguito da vicino le varie fasi delle trattative, cercando di capire con il diretto interessato le varie posizioni: dall’Inter al Dortmund, dov’era chiaro che Manuel non avrebbe più giocato. Non nego di essere stato anche un po’ infastidito dall’impasse che si era venuta a creare. Ero preoccupato, sì. Di qui l’immensa gioia quando sono stato avvisato delle imminenti visite mediche a Manchester».

A Murat Yakin restano tre partite prima dell'esordio in Qatar: due match di Nations League e un'amichevole. ©Keystone/Bott
A Murat Yakin restano tre partite prima dell'esordio in Qatar: due match di Nations League e un'amichevole. ©Keystone/Bott

Cosa dire, invece, della scelta di Renato?

«Anche con lui, dicevo, siamo stati in contatto. E in un primo momento mi ero permesso di dargli un solo consiglio: di valutare bene quando tornare in Svizzera. Perché avrebbe sempre potuto farlo e i tempi non andavano forzati. A meno che - ed è stato il caso - lo staff tecnico del Wolfsburg avesse ribadito di non considerarlo più. Detto questo, per me non fa alcuna differenza se Steffen gioca in Bundesliga o nel Lugano. E la ragione è semplice:Renato è un giocatore di qualità e al contempo molto ambizioso. Non a caso mi ha detto che avrebbe fatto tutto il possibile, con la maglia bianconera, per strappare la convocazione al Mondiale. Non dimentichiamo che stiamo parlando di un profilo molto duttile. Nell’ultimo match di Nations League, contro il Portogallo, aveva ad esempio fatto bene sia come terzino destro, sia come terzino sinistro. È un calciatore disciplinato, attento ai compiti difensivi. Ma non lo scopro ora: seguo e conosco Steffen dagli esordi nel Thun».

Inseguire un Mondiale dalla Super League è difficile di suo, farlo da Lugano appare quasi un azzardo. O la pensa diversamente?

«Beh, la recente convocazione di Mattia Bottani in Nations League credo significhi qualcosa. Peccato per l’infortunio che gli ha impedito di giocarsi una maglia da titolare in uno dei due ultimi impegni. E per quanto riguarda Renato Steffen ribadisco il concetto: a parlare saranno le sue prestazioni. Senza dimenticare che a Cornaredo avrà la possibilità di ricoprire un ruolo di maggiore responsabilità, sviluppandosi così ulteriormente».

Tre partite: due di Nations League e l’amichevole con il Ghana. Poi l’esordio mondiale contro il Camerun. Cosa vuole capire in questi 270 minuti?

«Le basi sono solide. Ma vogliamo fare un passo in più, migliorando come collettivo. A differenza dei club, dove il lavoro è quotidiano, in Nazionale servono 3-4 mesi per registrare dei progressi. L’aspetto mentale, quindi, ha un peso notevole. E mi riferisco al momentum nel quale si trovano i giocatori nelle 2-3 partite che precedono il raduno. Abbracciare i colori rossocrociati in una fase di fiducia e slancio può fare la differenza. In Nations abbiamo il destino nelle nostre mani. Ma prima della sfida decisiva con la Cechia vogliamo giocarcela già con la Spagna. Sarà possibile mettersi di nuovo in mostra. Nella speranza di venire risparmiati dagli infortuni».

A proposito di Nations League. Rispetto alla squadra in parziale difficoltà osservata in giugno, in Spagna e al cospetto della Cechia vedremo una Svizzera più forte sul piano atletico e mentale?

«Le ultime partite meritano un discorso a parte. Abbiamo dovuto fare i conti con assenze di peso. Ed è indubbio che misurarsi con i migliori in queste condizioni non è la stessa cosa. La gara in Portogallo non mente. Insomma, abbiamo e avremo sempre bisogno di un gruppo al completo e soprattutto di 12-13 giocatori abituati a esprimersi su determinati livelli».

Se non farà i playoff, Xherdan Shaqiri rischia un vuoto di tre settimane prima dei Mondiali

E cosa prevede la sua agenda nel mese di ottobre? Andrà a Chicago, per esempio?

«Era previsto, sì. Così come sono previste diverse visite in Europa. Sin qui abbiamo osservato con attenzione il campionato svizzero, coprendo ogni squadra. In caso di infortunio di una delle prime scelte - e mi riferisco a un gruppo di 16-18 giocatori -, dobbiamo in effetti farci trovare pronti. Sapere, insomma, chi sono i migliori sostituti a disposizione. In ottobre, tornando alla domanda, vorrei recarmi in Inghilterra: nella seconda metà del mese, e nel giro di una settimana, dovrebbero essere in calendario Arsenal-City e Chelsea-United. Purtroppo non riuscirò a raggiungere Xherdan a Chicago, a causa del sorteggio dei gruppi di qualificazione agli Europei del 2024 che andrà in scena l’8 ottobre a Francoforte. Il mio assistente, questo è sicuro, volerà negli Stati Uniti. La situazione di Shaq, in ogni caso, non mi preoccupa. Di base non servirebbe nemmeno visitarlo: se è in forma - e in passato lo ha provato a più riprese - può darci una grossa mano con la sua freschezza e la sua fantasia. Il problema, se vogliamo, è legato alle prestazioni del suo club. Nel caso in cui i Fire non raggiungessero i playoff, Shaqiri andrebbe incontro a un vuoto di 3-4 settimane. Cosa fare? È una questione che dobbiamo valutare».

Ha già in testa la formazione che scenderà in campo il 24 novembre a Doha, per l’esordio mondiale contro il Camerun?

«All’80% sì. Credo che le ultime sfide di Nations League, contro Spagna e Portogallo, abbiano chiarito qual è il livello necessario per competere. E quali giocatori lo possiedono. I due incontri di settembre, ad ogni modo, saranno utili per fugare gli ultimi dubbi».

Con quanti punti, al minimo, bisognerà arrivare alla terza sfida con la Serbia?

«Beh, non è un Europeo e non si qualificano le migliori terze. Direi tre come minimo. Quattro sarebbe il top».

Se le dicessimo che i serbi sono i favoriti per il secondo posto, si offenderebbe?

«Trovo sbagliato focalizzarsi sugli altri. E, in ogni caso, sono certo che pure i nostri avversari qualche riflessione su di noi la staranno facendo. Cruciale sarà avere rispetto della Serbia. Ma anche concentrarsi sul campo, lasciando che la politica non s’insinui nelle pieghe della partita. Rispetto a quattro anni fa siamo maturati, ne sono convinto. E spero che pure i media svizzeri non alimentino il fuoco della provocazione. Fare finta che il tema non esiste sarebbe sbagliato. Proprio per questo dovremo essere pronti a far parlare solo il pallone. Di più: ritengo che il primo posto sia alla portata di ogni selezione del girone, non solo del Brasile. I verdeoro conoscono la nostra forza a livello europeo: battere sia noi, sia la Serbia non sarà una formalità».

Da calciatore ha preso parte a un Europeo, ma non al Mondiale. Con quali emozioni vive la partecipazione alla competizione più prestigiosa del pianeta?

«Credo che un allenatore possa vivere un simile appuntamento in modo più consapevole e intenso. Un giocatore, al contrario, deve fare i conti con un ritmo vorticoso: prima il club e il campionato, poi la preparazione e l’esordio, poi la seconda partita eccetera. Un ct, invece, può godersi quella paura emotiva. Perché per il sottoscritto esistono solo la Nazionale e la pressione che ne deriva. In vista del Mondiale sono dunque entusiasta e curioso. Sono trascorsi dieci mesi dalla qualificazione. L’attesa cresce. Vogliamo divertirci e, ovviamente, avere successo. Non si discute: ne siamo capaci. Se al completo, la Svizzera ha le carte in regola per disputare un Mondiale ambizioso».

Qual è la partita nella storia dei Mondiali che l’ha segnata?

«Non ho dubbi in merito. Messico 86, quarti di finale allo stadio Azteca, Argentina-Inghilterra. E in campo un superbo Maradona».

Cruciale sarà avere rispetto della Serbia e concentrarsi sul campo, lasciando che la politica non s’insinui nelle pieghe della partita. Rispetto a quattro anni fa siamo maturati, ne sono convinto

Normalmente durante un Mondiale i tempi morti sono ridotti, complici i tanti viaggi da una città all’altra. Come terrà alto il morale della sua squadra a Doha?

«Premessa: sarà una preparazione completamente diversa dalle altre. Perché il debutto non sarà preceduto da 2-3 settimane di lavoro collettivo. No, in una settimana i giocatori archivieranno club e campionato, sosterranno un test contro il Ghana e poi sarà già il momento di concentrarsi sul Camerun. Questo per dire che le attività di gruppo, onestamente, non saranno la priorità. Di sicuro ne faremo una. Ma considerando colazioni, pranzi, cene e allenamenti insieme, reputo che di momenti condivisi ve ne saranno a sufficienza. Nei giorni di pausa, per contro, le esigenze dei singoli saranno altre: riposo, tranquillità, piscina, shopping. Abbiamo la fortuna di appoggiarci a ottime strutture e di godere di condizioni ideali. La necessità o meno di fare squadra, semmai, sarà innescata naturalmente dai risultati».

Come verranno gestite le visite di mogli, compagne e familiari? Saranno possibili?

«Lo saranno dopo ogni incontro. I giocatori potranno essere raggiunti dai rispettivi cari per cena, in hotel».

Murat, la storia della sua famiglia è fatta di migrazione e sacrifici. Cosa significano i «diritti umani» per lei? E che effetto le fa, dunque, sfruttare il palcoscenico offerto da un Paese che ha calpestato questi diritti per raggiungere il suo obiettivo?

«L’ASF ha assunto un ruolo proattivo su questo tema, cercando di difendere i diritti dei lavoratori nei limiti delle sue possibilità. Va da sé, sosteniamo questa iniziativa come selezione nazionale e speriamo che la Coppa del Mondo possa contribuire a migliorare la situazione dei lavoratori attivi in Qatar. Io e i miei fratelli non abbiamo provato sulla nostra pelle determinate dinamiche. Semplicemente siamo stati cresciuti con una cultura chiara. La cultura del lavoro, che ha guidato i nostri genitori in quanto lavoratori immigrati. La Svizzera, per i Yakin, ha costituito una grande opportunità. Sul piano professionale e di crescita. Siamo infatti stati accolti in un Paese sicuro, dove l’acqua era pulita a differenza della Turchia. A Doha la questione dei diritti umani sarà forse un grande tema, ora è sicuramente un argomento enfatizzato, il che è sicuramente un bene. Ma spero che con l’avvicinamento del 20 novembre a prevalere sarà l’aspetto calcistico. Senza con questo etichettare come giuste o sbagliate le discussioni in materia. Giocatori e allenatori, questo è certo, non hanno il potere di cambiare le cose. Non è il nostro compito».

Un’ultima curiosità: ci può raccontare qualcosa di più dell’azienda produttrice di letti e materassi nella quale ha investito?

«È un’opportunità che mi si è presentata. E che ho colto volentieri. Il tutto grazie a un amico che da oramai dieci anni opera nel ramo dei letti di lusso. Ho potuto sperimentare in prima persona la qualità del prodotto, dormendo su questi materassi a Bodrum. È stato super. Un’esperienza autentica, nella quale l’istinto mi ha spinto a investire. Senza, e ci tengo a precisarlo, dover ricoprire alcun ruolo operativo. Posso assicurarvi che sono felice e non cerco ulteriori occupazioni. Ho già abbastanza da fare (ride, ndr.)».

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