«Come dire a Federer: niente Roland Garros, stessi soldi ma giochi un torneo tra svizzeri»

Signora Lambertini, torniamo a parlare di ricerca. Qual è il ruolo della ricerca all’Università della Svizzera italiana?
«L’USI ha tre missioni, che trovano il proprio fondamento giuridico nella Legge sull’Università della Svizzera italiana. Oltre a offrire una formazione di qualità, siamo chiamati a condurre una ricerca scientifica di rilevanza internazionale e a impegnarci per generare un impatto positivo sulla società e il territorio. È il mandato che ci dà la politica e noi cerchiamo di svolgerlo al meglio».
L’USI è un’università giovane. Quale ruolo si è ritagliata nel panorama internazionale della ricerca?
«Siamo giovani, ma il profilo dell’USI quale “università ad alta intensità nella ricerca” è ormai consolidato. Lo attestano i dati: nella prima edizione del QS World University Rankings Europe 2024 pubblicata qualche settimana fa l’USI risulta il 9. ateneo europeo e il 3. in Svizzera, dietro ai due politecnici federali, per numero di citazioni per articolo scientifico. Quello delle citazioni è uno dei principali parametri con cui si misura l’impatto e la qualità della ricerca: più volte un articolo viene citato in altri lavori accademici, più questo è da considerare importante. Possiamo anche annoverare 26 ERC Grant, prestigiosi fondi del Consiglio europeo della ricerca, tra i programmi di finanziamento più competitivi, dai quali ora siamo esclusi a causa della mancata associazione della Svizzera al programma di ricerca dell’Unione Europea Horizon Europe. Sono risultati molto positivi per un’università giovane e di dimensioni contenute come l’USI, di cui tutta la Svizzera italiana può essere fiera».
È doveroso ricordare quali siano i principali ambiti di ricerca all’USI. Può magari fornirci alcune cifre in questo senso? E come sono cambiate nel tempo?
«Nell’anno accademico 2022-2023 abbiamo attirato 27 milioni di franchi di finanziamenti competitivi provenienti in particolare dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica e dall’Unione europea. Sebbene la Commissione europea consideri la Svizzera un Paese terzo non associato al programma di ricerca e innovazione dell’UE, abbiamo ancora ottenuto un buon numero di partecipazioni a progetti collaborativi europei (ai quali possiamo ancora partecipare, la parte svizzera è finanziata direttamente dalla Confederazione tramite i fondi sostitutivi). Vorrei sottolineare il buon riscontro dei giovani ricercatori e delle giovani ricercatrici e la varietà degli attori che ottengono fondi di ricerca competitiva. Abbiamo gli istituti afferenti alle Facoltà di Lugano - con particolare successo, ad esempio, nei campi dell’ingegneria del software, delle scienze economiche e sociali, e della scienza computazionale e dei dati -, l’istituto comune IDSIA USI-SUPSI sull’intelligenza artificiale, il polo della ricerca biomedica con gli affiliati IRB e IOR a Bellinzona, l’Istituto affiliato IRSOL a Locarno, ma anche gruppi di ricerca a Mendrisio dove l’Accademia ha ottenuto ingenti finanziamenti presso il Fondo nazionale svizzero per ricerche sulla sostenibilità dei materiali e sulla storia dell’arte. Negli ultimi dieci anni l’evoluzione vede un aumento dei fondi di ricerca in tutte le aree disciplinari ma con un accento particolare nell’ambito dell’informatica, dell’intelligenza artificiale e della biomedicina».


L’esclusione della Svizzera dal programma Horizon Europe come ha condizionato questo ruolo, ma anche i budget?
«I budget per ora sono garantiti dalle misure di compensazione transitorie. Per gli strumenti da cui le università svizzere sono escluse, la Segreteria di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione (SEFRI) ha infatti incaricato agenzie di finanziamento svizzere di introdurre misure transitorie, come ad esempio dando mandato al Fondo Nazionale Svizzero per la Ricerca (FNS) di implementare bandi sostitutivi per i prestigiosi European Research Council (ERC) Grants. Le conseguenze più pesanti per ora non sono quindi finanziare, le rileviamo a livello di posizionamento, reputazione e rete. Il pericolo è reale: ne è la prova l’enorme sforzo diplomatico fatto dal Regno Unito per far riammettere le proprie università a pieno titolo nei programmi di ricerca di Horizon Europe, dopo la Brexit. Anche il Regno Unito temeva non tanto le conseguenze finanziarie, bensì la perdita di attrattività internazionale e di leadership nella ricerca. L’incertezza e la mancanza di prospettive chiare fanno infatti molto male al settore e si teme che le mancate collaborazioni, a tendere, possano portare a un progressivo isolamento e indebolimento della piazza accademica svizzera».
Sono passati due anni e nulla si muove in questo senso, tra Berna e Bruxelles. Come giudica l’operato del Consiglio federale?
«Credo che l’obiettivo sia chiaro a tutti, in primis al Consiglio federale, ma che occorra spingere sull’acceleratore. Non siamo per dimensione come il Regno Unito, ma gli sforzi negoziali della Svizzera a Bruxelles devono finalmente dare dei risultati. Il Consiglio federale sa bene che la piena associazione ai programmi di formazione e ricerca dell’UE è una priorità assoluta per le università svizzere e che la partecipazione ai programmi dell’UE non può essere sostituita da accordi bilaterali con i singoli Paesi».
Spesso Berna si giustifica evidenziando i fondi comunque versati alla ricerca, come misura transitoria di sostegno. Ma oltre alla questione finanziaria, c’è di più. Può aiutarci a capire questa dinamica legata alla partecipazione, al prestigio?
«I programmi sostitutivi del FNS sono molto apprezzati, ma non risolvono la situazione perché non si tratta di una questione meramente finanziaria. Per spiegarlo mi avvalgo di una similitudine che mi è parsa molto indovinata e comprensibile. È come se Roger Federer si fosse trovato nella condizione di non poter partecipare al Roland Garros per questioni politiche e, in tutta risposta, la Svizzera gli avesse detto: “Non ti preoccupare Roger, in cambio ti organizzo un piccolo torneo tra svizzeri a Gstaad, e se vinci ti garantisco il medesimo premio”. È chiaro che non è la stessa cosa: il prestigio degli ERC basati su di una competizione europea è più grande di quello degli schemi sostitutivi svizzeri a parità di condizioni. Inoltre, le università svizzere non possono partecipare pienamente alle attività di coordinamento della ricerca e a progetti strutturanti come le infrastrutture di ricerca europee e le alleanze fra le università europee: questi sono i luoghi dove si disegna il futuro spazio europeo della ricerca e della formazione superiore, ed è fondamentale esserci. Senza dimenticare l’esclusione dai programmi di educazione europei (Erasmus+): anche qui non si tratta solo di mobilità degli studenti, ma di cooperazioni istituzionali che sono fondamentali per il posizionamento internazionale delle università svizzere».


Che cosa può fare il mondo delle università, della ricerca, per spingere Berna a trovare un compromesso con Bruxelles?
«Continuare a parlare della situazione affinché si capisca la posta in gioco. Ringrazio il Corriere del Ticino per l’attenzione che sta recentemente dando a questo argomento, che ci permette di spiegare le conseguenze di questa esclusione alla popolazione. Come università partecipiamo a dibattiti come quello qui proposto da Coscienza svizzera e contribuiamo alla discussione nazionale, al fianco di swissuniversities per fare pressione direttamente sul Consiglio federale a Berna. Io stessa questa estate ho fatto un appello in occasione della Giornata degli ambasciatori, di fronte a 240 diplomatici svizzeri ed esteri, affinché si continui il prezioso lavoro per trovare il prima possibile una soluzione e rimetterci nelle migliori condizioni per portare avanti il nostro lavoro».
Concretamente, l’USI ha già perso ricercatrici e ricercatori e opportunità in correlazione all’esclusione da Horizon? Si è già verificata la tanto temuta fuga di cervelli?
«Alcuni miei colleghi rettori mi hanno già riferito di esempi concreti, mentre dall’USI fortunatamente non è ancora scappato nessuno per questo motivo. È difficile misurare invece il mancato arrivo di cervelli. Le università e i politecnici svizzeri sono stati veri punti di attrazione per i ricercatori di talento anche grazie alla possibilità di fare domanda per gli ERC. Restano difficilmente misurabili le mancate candidature ai molti bandi che pubblichiamo. Si teme infatti che le università svizzere diventino progressivamente meno attrattive soprattutto per i giovani ricercatori internazionali di maggior talento».
Forse non c’è una reale comprensione di ciò che verrebbe a mancare nel caso in cui la Svizzera dovesse perdere prestigio e occasioni sul piano internazionale. Ecco, lei può aiutarci: che cosa perderemmo, come società tutta?
«La mancata associazione della Svizzera al programma di ricerca dell’Unione Europea Horizon Europe presenta diverse sfide alla comunità di ricerca, all’economia e alla società. Qualche giorno fa è uscita la classifica Global Innovation Index 2023, che per la tredicesima volta consecutiva vede la Svizzera al primo posto per l’economia più innovativa. Oltre a essere rettrice dell’USI sono un’economista, esperta di finanza internazionale, macroeconomia ed economia politica. Dal mio osservatorio privilegiato mi permetto di affermare che la prosperità del nostro Paese si basa fortemente su questa capacità di innovare. Come amava dire un mio predecessore, il professor Piero Martinoli, l’unica materia prima che ha la svizzera è la “materia grigia”, che è la più importante risorsa naturale del nostro Paese. Mi permetto di rubargli questa battuta e di aggiungere che grazie alla materia grigia – quella indigena e quella importata – la Svizzera ha potuto sviluppare un ecosistema che per anni ha garantito un’elevata qualità di vita alla sua popolazione. Attenzione però a non dare per scontati questi privilegi: è un ecosistema fragile. Le scuole universitarie hanno bisogno di soluzioni rapide: il prezzo da pagare per essere rimasti in disparte negli ultimi anni non è ancora evidente, ma può diventarlo in prospettiva, soprattutto per le generazioni che verranno dopo di noi».
«Non possiamo pretendere dall'Europa servizi à la carte»
«Ricerca senza rete?». È partita da questa domanda, posta da Coscienza Svizzera, la riflessione a cui sono stati invitati ieri all’USI di Lugano l’attuale rettrice, Luisa Lambertini, e Mauro Dell’Ambrogio, già segretario di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione. Entrambi hanno messo in risalto i motivi per cui è fondamentale far parte di una rete europea. Dell’Ambrogio ne ha elencati quattro: il ritorno finanziario, certo, poi la conoscenza - l’esperienza - che se ne ricava, l’attrattività per i giovani talenti e, infine, l’essere parte di un sistema competitivo. Luisa Lambertini ha ricordato: «La Svizzera è in mezzo all’Europa». E lei stessa ha spiegato che se ha deciso di trasferirsi dalla California alla Svizzera è proprio perché, all’epoca, sapeva di poter chiedere questi fondi. Di base, come è stato sottolineato: «La soluzione è politica». E l’esempio del Regno Unito dimostra «che una soluzione è possibile». Certo, ha aggiunto Dell’Ambrogio, «non possiamo pretendere di avere dall’Europa servizi à la carte. Va aperta una discussione sulle concessioni». «E sui valori comuni», ha concluso Lambertini.