L'accusa

Michael Burry durissimo contro Silicon Valley Bank: «È sempre la stessa cosa»

L'uomo che, quindici anni fa, scommise sul crollo del mercato immobiliare statunitense a muso duro via Twitter: «Gente piena di arroganza e avidità prende rischi stupidi e fallisce»
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Marcello Pelizzari
14.03.2023 17:00

Il messaggio, pessimista se non apocalittico, va ascoltato. E questo perché, banalmente, a scriverlo è Michael Burry. Quel Michael Burry, sì. L’uomo che, quindici anni fa, scommise sul crollo del mercato immobiliare statunitense. Vincendo, va da sé. Per ripassare, se caso, (ri)godetevi The Big Short di Adam McKay.

Fatte le premesse, veniamo al punto: che cosa ha detto, a questo giro, Burry? Anzi, che cosa ha scritto su Twitter salvo poi, come da prassi, cancellare quasi subito il cinguettio? «2000, 2008, 2023, è sempre la stessa cosa» unendo idealmente i puntini fra le varie crisi e citando, pur indirettamente, il caso Silicon Valley Bank. La banca delle start-up andata gambe all’aria. Di nuovo: «Gente piena di arroganza e avidità prende rischi stupidi e fallisce. Allora si stampano soldi. Perché funziona così bene».

Il caso Enron

Venerdì, Burry aveva pubblicato un primissimo tweet sul fallimento della Silicon Valley Bank: «Potremmo avere trovato la nostra Enron». Il governo americano, nel frattempo, ha chiuso un’altra banca, Signature Bank, attiva nel settore immobiliare, per evitare che il cosiddetto contagio si propagasse anche ad altri istituti. Burry, con il suo primo cinguettio, ha fatto riferimento alla società energetica statunitense che, fra il 1996 e il 2000, passò dal novantaquattresimo al settimo posto nella classifica delle maggiori aziende d’America, per poi crollare e fallire miseramente nel 2001. Quella di Enron, all’epoca, fu una delle bancarotte più grandi e violente della storia, con circa 20 mila persone rimaste senza lavoro dall’oggi al domani e miliardi di dollari in fondi pensione andati in fumo.

La Enron fallì perché, al timone, c’erano dirigenti più furbi che belli volendo usare un’espressione gergale. Rovinati, per dirla con Burry, dalla loro presunzione. Una presunzione paragonabile a quella che condusse alla crisi del 2008 e che, ora, sembrerebbe aver ammantato la Silicon Valley Bank.

Il perché del fallimento

Un fallimento, quello della maggior banca dell’area tecnologica californiana, tanto improvviso quanto pesante. Legato a doppio filo a scelte sbagliate e, soprattutto, al rialzo dei tassi d’interesse deciso dalla Federal Reserve. In linea di principio, come abbiamo scritto, Silicon Valley Bank prendeva il denaro dei clienti per reinvestirlo in obbligazioni. Un meccanismo di per sé normale, visto che tutte le banche più o meno si comportano così. I problemi sono sorti con l’aumento dell’inflazione e, di riflesso, con l’intervento della Federal Reserve che ha aumentato i tassi di interesse. Il valore degli investimenti di SVB, effettuati a tassi più bassi, all’improvviso si è ridotto. Non solo, le difficoltà del settore tecnologico hanno pure pesato.

La reazione

Bloomberg, in particolare, ha rivelato come alcune società di venture capital abbiano spinto affinché alcune aziende nel loro portafoglio ritirassero i soldi dalla SVB. La corsa agli sportelli, in queste ore, ha creato non pochi problemi. E la situazione venutasi a creare in America ha avuto echi e riflessi pure in Europa, dove nel frattempo HSBC si è assicurata le attività inglesi di Silicon Valley Bank mentre l’autorità di vigilanza bancaria tedesca ha congelato le attività della banca in Germania.  

Joe Biden, dal canto suo, ha provato a rassicurare i cittadini. Affermando, in particolare, che le perdite di Silicon Valley e Signature «non saranno a carico dei contribuenti americani». Gli americani, a detta di Biden, «possono avere fiducia nel fatto che il sistema bancario sia sicuro. I loro depositi saranno lì quando ne avranno bisogno».

Il governo federale, non a caso, ha ribadito che tutti i correntisti delle banche fallite riavranno i loro soldi, inclusi coloro che avevano depositi superiori ai 250 mila dollari, depositi non garantiti per legge. Detto ciò, il governo non tutelerà, invece, gli investitori.

E chissà come digerirà Burry l’annuncio, fatto da Washington, di nuove misure per rendere ancora più sicuro il sistema, fra cui un meccanismo di prestiti per istituti in difficoltà gestito direttamente dalla Federal Reserve. A suo tempo, nel 2008, le mosse varate dalla politica per correggere gli eccessi di Wall Street non sortirono – quantomeno sul lungo periodo – l’effetto sperato. «Questa crisi potrebbe risolversi molto rapidamente» ha scritto Burry in un altro tweet subito fatto sparire. «Non vedo un vero pericolo». Sarà davvero così?

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