La storia

«Abusata a 7 anni da un predatore con la tonaca. Quella bambina sono io»

Una donna ticinese si è riconosciuta nel «caso di studio» descritto nel progetto pilota sulle violenze in ambito ecclesiastico redatto dall'Università di Zurigo – Il nome del sacerdote lo facciamo noi: don Luigi Cansani
© KEYSTONE / CHRISTIAN BEUTLER
Dario Campione
19.12.2023 06:00

«Quella bambina sono io». Non succede spesso, ma qualche volta succede, che una mail o una lettera ti facciano capire che cosa significhi raccontare ogni giorno i fatti della vita. Che cosa sia, davvero, il mestiere di giornalista. Quando a settembre la Conferenza episcopale svizzera ha presentato il progetto pilota sui casi di abusi in ambito ecclesiale affidato all’Università di Zurigo, a tutti è stata subito chiara la portata della decisione presa dai vescovi cattolici. L’invito, esplicito, alle vittime a farsi avanti, a rivelare la propria sofferenza, faceva a pezzi l’ideologia del silenzio e la prospettiva, tutto sommato rassicurante, del perdono. Quell’invito non aveva alcunché di retorico. Era piuttosto il segnale di un nuovo inizio. Necessario, probabilmente, per salvare la stessa Chiesa.

C’è stato chi, quell’esortazione, l’ha presa sul serio. E ha deciso di parlare. Di raccontare. Tra loro, una donna, nata in Ticino alla fine degli anni ’50 del secolo scorso. La protagonista di questa terribile storia.

La scoperta

Riavvolgiamo il filo e torniamo alla mail inviata al CdT a novembre e al suo contenuto: «Leggendo i “casi di studio” (della ricerca dell’Università di Zurigo, ndr) mi sono riconosciuta nella bambina abusata da un prete insegnante di musica negli anni ’60 a Lugano. Non ho mai potuto parlarne, e ora vorrei sapere: come e dove posso consultare le fonti di questo articolo? A chi rivolgermi? Vi ringrazio se potete aiutarmi in questa ricerca, molto importante per me».

Il nostro primo obiettivo è stato dare una mano alla signora, metterla in contatto con la curia luganese, inviarle il testo completo del lungo rapporto dell’ETH. Poi, ovviamente, è stato inevitabile chiederle se volesse raccontare. Non c’è stata alcuna forzatura. Tutto è maturato in modo semplice e naturale, nel tempo necessario a compiere una scelta comunque difficile.

Così, la settimana scorsa, la signora è venuta da sola, a Muzzano, nella nostra redazione. Per «ricordare» e mettere in fila pensieri che da sempre affollavano confusamente e dolorosamente la sua mente. Un primo passo, cui è seguito un secondo: l’appuntamento in curia con l’amministratore apostolico, che l’ha accolta e le ha fatto leggere alcune parti del dossier custodito nell’archivio diocesano e relativo al «predatore» che, ormai quasi sessanta anni fa, le aveva cambiato la vita.

Sono stata molto ben accolta dal vescovo a Lugano e sono pienamente soddisfatta di aver appreso cose che non sapevo

«Sono stata molto ben accolta e sono pienamente soddisfatta di aver appreso cose che non sapevo, di aver preso conoscenza delle reazioni dei miei genitori e delle persone interessate a quel momento - ha scritto la signora in un messaggio dopo l’incontro con monsignor Alain de Raemy, definito - una persona aperta e disponibile ad aiutare le vittime».

Nessuna vendetta

«Ho deciso di parlare perché vorrei incoraggiare anche altri a farlo - dice la signora -. Prima di leggere il rapporto dell’Università di Zurigo credevo di avere l’animo in pace, mi sembrava che fosse così. Ma ho capito che non era vero. Tirare fuori la verità serve, mette in moto un processo di liberazione che può essere utile. Soprattutto, può aiutare a fare in modo che certe cose non accadano più o succedano il meno possibile».

Nessun sentimento di vendetta. Nessuna rivalsa. Soltanto il bisogno di comprendere. «La mia vita è stata molto provata da questa vicenda, con l’età si può capire meglio ma certo non è facile. La Chiesa continua a chiedere perdono: lo accetto. Ma è orrendo che tutto questo dolore sia giunto da persone che avrebbero dovuto dare l’esempio, da chi parla di Dio».

Prima di proseguire nel racconto, serve una precisazione. Quando abbiamo cominciato il nostro colloquio, durato poi circa 45 minuti, la signora ci ha consegnato due fogli dattiloscritti intitolati semplicemente «Ricordi».

Una ricostruzione talmente bella ed efficace che, alla fine, abbiamo deciso di riprodurla integralmente. In questi «ricordi» manca ovviamente uno dei dati significativi della storia: il nome del «predatore», come lo definisce oggi la signora. Il nome del sacerdote che, tradendo la sua missione e il suo giuramento di fronte a Dio e agli uomini, abusò di lei.

Quel nome lo facciamo noi: don Luigi Cansani. Lo facciamo per più motivi. Perché nessuno dei tanti preti del tempo sia associato a questa sporca vicenda. Perché una luce di verità accenda un passato oscuro. Perché la giustizia, anche se tardiva, ha sempre un senso, ma soltanto se sa sfuggire alle omissioni, anche le più piccole. Perché la banalità del male, come ha insegnato Hannah Arendt, può essere sconfitta soltanto con una memoria consapevole.

«Ricordi»

«Sono nata in Ticino nel 1959 in una famiglia stimata e conosciuta. Ho ricevuto un’educazione cattolica abbastanza severa, come si faceva nelle famiglie praticanti in quegli anni. Frequentai l’asilo e, in seguito, la scuola elementare del quartiere. I ricordi dell’asilo e dei primi due anni di scuola sono felici».

«Un giorno, dovevo avere all’incirca 7-8 anni, un pianoforte fece la sua apparizione nella mia camera e la mamma decise di iscriverci a lezioni di musica, mio fratello e io».

Mio fratello si metteva al piano, il “maestro” si sedeva accanto a lui. lo stavo in piedi accanto al “maestro”, a guardare. Dovevo stare in piedi ad ascoltare mentre il “maestro” mi violentava con la sua mano sotto la gonna

«Non so attraverso quale raccomandazione, ci mandarono da un prete-musicista che dava lezioni private in una struttura cattolica poco lontana. Non ricordo quante volte andammo, era lui a telefonare a casa all’improvviso qualche momento prima per convocarci. Andavamo da soli in questo edificio: ho il ricordo di una grande scala e di una camera con un piccolo corridoio, dove ci attendeva il “maestro” con la tonaca nera».

«Mio fratello si metteva al piano, il “maestro” si sedeva accanto a lui. lo stavo in piedi accanto al “maestro”, a guardare. Dovevo stare in piedi ad ascoltare mentre il “maestro” mi violentava con la sua mano sotto la gonna».

«Ho il ricordo molto nitido del dolore fisico, e la coscienza che mi stava accadendo qualcosa di tremendo. A lezione finita, nel piccolo corridoio il “maestro” mi guardava beffardo, come per dirmi “se parli, vedrai”, strusciandosi contro di me per lunghi istanti; e infine, ci congedava».

«Durante questo periodo provai una sensazione di solitudine assoluta, come se fossi piombata in una realtà nella quale avevo perso tutti i miei punti di riferimento. Ero in un “tunnel” molto buio, senza possibilità di poter scappare o chiedere aiuto».

«Non ricordo come o da chi questi avvenimenti furono scoperti e svelati» (in realtà, come emerge dal dossier conservato in diocesi, fu lei stessa a dirlo, ndr).

«L'immagine seguente è un incontro in casa con personaggi - tutti uomini - che mi fecero domande. Questo momento fu estremamente doloroso: mi sentivo terribilmente responsabile di tutto, si toccava qualcosa di proibito, di indicibile. Mi sentivo incapace di rispondere, avrei voluto sprofondare e un velo nero calò davanti ai miei occhi. Il grado di sofferenza e di vergogna provato in quei momenti fu insopportabile».

«Non andammo più dal prete musicista e fummo iscritti altrove per continuare le lezioni di piano. In famiglia non ci furono ulteriori spiegazioni, non mi portarono da un dottore, su questi avvenimenti calò il silenzio. Nessuno mi spiegò che ciò che avevo subìto non era assolutamente normale o scusabile. Ma oggigiorno posso immaginare a che punto i miei genitori fossero spaventati e relativamente inermi di fronte a quel che mi succedeva, e che all’epoca non si usava ribellarsi troppo apertamente contro le autorità, soprattutto religiose. Bisognava accettare».

«Diventai una bambina silenziosa e solitaria e a poco a poco ciò che mi era successo sparì dalla mia memoria. Cominciai invece ad avere incubi, terrori notturni, insonnie, paura di restare sola la notte nella mia camera, paura del buio, del silenzio. Cominciai a soffrire di enuresi di notte e di giorno. In generale, gli adulti mi spaventavano e la mia vita interiore diventò molto difficile. Spesso, quando incontravamo amici di famiglia, dicevano: “Ma come è seria e matura questa bambina, come è ben educata, che fortuna...”.

«L’educazione cattolica praticante proseguì, e il clero continuò a frequentare la nostra casa».

«Ho sofferto di queste angosce e paure segrete fino all’adolescenza. Ero continuamente abitata da un senso generale di profonda vergogna, di inferiorità, con la sensazione di essere diversa dalle altre bambine. Dopo la maturità mi trasferii nella Svizzera interna per gli studi superiori».

«Questo trasferimento è stata la mia salvezza. Allontanarmi dall’educazione severa, dall’ambiente opprimente della comunità, dove non si poteva parlare liberamente, dove c’era omertà sulle cose brutte che accadevano: questo cambiamento contribuì decisamente al riscatto di un’infanzia e di un’innocenza rovinate».

Ricordo il passato per testimoniare dell’ambiente ticinese di quegli anni, nel quale probabilmente i fatti di questo tipo erano sistematicamente passati sotto silenzio

«Trovai un ambiente nuovo, evoluto, e soprattutto la possibilità e la fortuna di poter contare soltanto su me stessa e sulle mie scelte. La mia nuova vita mi cambiò completamente. Scoprii gradualmente dove fosse la mia forza, imparai l’autostima e incontrai persone che mi aiutarono molto con la loro presenza non giudicante. Qui, dove abito da più di 45 anni, ho curato le ferite approfittando semplicemente del rispetto altrui».

«Ricordo il passato per testimoniare dell’ambiente ticinese di quegli anni, nel quale probabilmente i fatti di questo tipo erano sistematicamente passati sotto silenzio e regolati senza smuovere troppo le acque. Tengo a testimoniare perché uno dei peggiori peccati dell’essere umano è, a mio avviso, la profanazione fisica e psicologica dei più piccoli e dei più deboli. Soprattutto, se questi abusi giungono da uomini e istituzioni che predicano l’amore di Dio e la protezione degli innocenti».

«Il sacerdote che abusò di me è scomparso qualche anno fa, ma è tuttora presente sul Web, dove non si dice una parola del male che fece durante la sua vita; una vita che avrebbe dovuto invece essere esemplare. Questa persona rimase praticamente impunita penalmente e fu spostata altrove per continuare le sue “attività”».

L’uscita dall’inferno

L’ultimo scambio di mail con la nostra testimone conferma quanto importante sia stato ricordare, incontrare il vescovo, leggere il dossier, “scoprire” e illuminare di luce nuova la propria vita. «Sono finalmente consapevole di che cosa è successo, non mi sono sognata nulla. Quando entrai per la prima volta nella stanza del “maestro” cominciò l’inferno. Non so quanto tempo sia durato. So che adesso ne sono uscita».