Caso Unitas, i chiarimenti di Bertoli

Manuele Bertoli ha voluto fare chiarezza, mettere i puntini sulle «i» e rispondere ad alcune illazioni in merito al cosiddetto «caso Unitas». Ossia sulle molestie perpetrate per oltre un ventennio da un ex dirigente dell'associazione ciechi e ipovedenti della Svizzera italiana (Unitas). Associazione di cui il consigliere di Stato socialista è stato prima membro di comitato (tra la fine degli anni Novanta e il 2001) e poi direttore (dal 2002 al 2011) fino alla sua elezione in Governo. E lo ha fatto convocando la stampa a titolo personale, non in quanto rappresentante del Consiglio di Stato, in un hotel di Giubiasco. Ma soprattutto, come detto, lo ha fatto per «dare una serie di spiegazioni e mettere in luce i fatti» riguardanti alcune illazioni - «apparse sia in atti parlamentari, sia su alcuni articoli di giornale» - relativi al suo ruolo nel «caso Unitas». Il riferimento, in particolare, va all'articolo apparso il 5 febbraio sul Mattino della domenica, nel quale il domenicale leghista ha scritto nero su bianco che «il Ministro Bertoli sapeva», citando la lettera scritta da un'operatrice dell'associazione prima di togliersi la vita nel 2001, nella quale compare, appunto, anche il nome di Bertoli. Nello scritto la donna chiedeva all'allora vicepresidente dell'associazione (ndr. Bertoli) di assumersi le sue responsabilità. Delle spiegazioni, ha poi spiegato Bertoli, utili anche in vista del dibattito che con ogni probabilità avverrà la prossima settimana in Parlamento, dove sul tavolo del plenum ci sono due interpellanze sulla vicenda.
Quattro precisazioni
Bertoli ha però voluto dapprima fare una premessa, sul ruolo e sul «DNA» dell'associazione, utile alla comprensione delle sue successive spiegazioni. «Unitas nasce dopo la Seconda guerra mondiale, per volontà di una persona (Tarcisio Bisi), con un'idea di emancipazione, secondo il principio di auto-aiuto tra persone cieche e ipovedenti». Detto diversamente, Unitas è un'associazione «delle» persone cieche e ipovedenti, non «per» le persone cieche e ipovedenti. E non a caso del comitato fanno parte unicamente persone affette da questa condizione.
Ora, e veniamo al dunque, fatta questa premessa Bertoli ha voluto fornire spiegazioni su quattro temi precisi. Il primo dei quali riguarda la lettera citata poc'anzi.
«Quando successe questa cosa, rimanemmo tutti di sasso. Qualche giorno dopo, il 16 dicembre 2001, ricevemmo una lettera da parte del fratello e della madre della persona che si era tolta la vita, nella quale veniva chiesto di inviare eventuali donazioni in memoria di questa persona alla società ticinese per l'assistenza dei ciechi. Ossia non a un'associazione "dei" ciechi, ma "per" i ciechi. Oltre a questa richiesta, a cui venne dato seguito, nella lettera veniva indicato che la persona aveva lasciato un suo scritto, di cui è stato allegato un breve estratto, che non diceva un granché. Riportava i sentimenti di questa persona, parlando in generale di accuse, facendo qualche nome, tra cui anche il mio. Quel testo io non l'ho mai ricevuto e che io sappia nemmeno gli altri membri del comitato. Lo chiedemmo, ma non l'abbiamo mai ottenuto, perché pare questa fosse la volontà della persona».
A questo punto Bertoli ha consegnato ai media una lettera (di cui lui - ha spiegato - non si ricordava) che lui stesso scrisse ai familiari di questa persona qualche giorno più tardi. Una missiva in cui ripercorreva alcuni fatti avvenuti nei mesi precedenti. Tra questi, due incontri, di cui Bertoli si era fatto promotore, tra la persona che si è poi tolta la vita e alcuni membri di Unitas, per cercare di appianare le problematiche emerse nei mesi precedenti. Problematiche che però, ha sottolineato Bertoli, mai avrebbero fatto pensare a un atto così estremo. Si trattava, insomma, «di questioni di sfiducia, di tempi di lavoro». «I fatti sono questi, non si parlò né di mobbing, né di molestie». A riprova di ciò, nella lettera che Bertoli inviò ai familiari, si può leggere: «Le accuse e le calunnie di cui parla nel suo scritto, se dovessero riferirsi a fatti di cui si è discusso nel corso dei due incontri sopramenzionati, erano oggettivamente relative a cose di lieve importanza, tanto da non essere oggetto di discussione in sé, ma semmai indizi di un'incomprensione che andava chiarita. Non so se tra le carte lasciate da vostra figlia e sorella vi sono altre indicazioni che possano meglio precisare il disagio che l'ha portata a togliersi la vita, ma permettetemi di dirvi che dopo l'incontro del 26 ottobre (ndr. 2001) nessuno dei presenti, io per primo, poteva immaginare che F. (ndr. l'iniziale del nome della donna) meditasse dei propositi in tal senso».
Il secondo tema che Bertoli ha voluto chiarire riguarda i casi di mobbing. A questo proposito ha richiamato le risposte del Governo alle due interpellanze di cui si è discusso nell'ultima sessione parlamentare. «Come avete potuto leggere, l'audit esterno non ha ravvisato casi di mobbing. E quindi anche tutte le illazioni a questo proposito sono prive di oggetto. E l'audit conferma quanto dissi un anno fa: quando sono stato direttore non c'è mai stato del mobbing».
Il terzo punto riguarda le molestie. «Molestie che - ha evidenziato Bertoli -, contrariamente ai casi di mobbing, sono state accertate. Quindi il tema è: chi sapeva?». Anche in questo caso Bertoli ha richiamato le risposte del Governo, sottolineando che le cinque segnalazioni di molestie sono tutte pervenute tra il 2018 e il 2020, ossia quando Bertoli non era più direttore. «Purtroppo senza segnalazioni è difficile immaginarsi le cose e finché la gente non parla è difficile affrontare» tali situazioni.
Il quarto tema, infine, riguarda il ruolo della Fondazione Unitas, di cui ancora oggi Bertoli fa parte. «È un soggetto separato dall'associazione», ha voluto chiarire Bertoli. «Tra le cose raccontate c'è anche l'eventualità che l'autore delle molestie potesse prevaricare le persone, non concedendo le prestazioni» di aiuto che la Fondazione ha la possibilità di dare ai membri di Unitas. «Ma ciò non è mai stato possibile perché tali decisioni sono sempre state prese da più persone, non da una sola».
Una conclusione e una preoccupazione
«Quando accadono queste cose - ha chiosato Bertoli - dove ci sono delle molestie, dove c'è del dolore, penso sia giudizioso non commentare e non giudicare, ma accogliere il dolore che viene espresso. Quello che è successo non doveva succedere. E credo sia giusto che i fatti siano venuti alla luce. C'è vicinanza alle persone che hanno subito quello che non dovevano subire. Auspico anche che Unitas possa continuare a fare ciò per cui è nata, ossia essere un'associazione di auto-aiuto tra persone cieche e ipovedenti, e non dover cambiare il suo DNA perché una serie di persone se ne va. Perché di persone che possono prendere il loro posto non ce ne sono abbastanza. Non ho soluzioni, ma preoccupazione in questo senso». La preoccupazione di Bertoli riguarda la richiesta, fatta dal Governo a Unitas, di cambiare il comitato in tempi brevi. A questo proposito, a una nostra domanda, Bertoli ha chiarito che la preoccupazione riguarda l'eventualità di non riuscire a trovare abbastanza persone (cieche o ipovedenti) con le competenze necessarie per entrare in Comitato, non potendo quindi garantire la continuità dell'attività dell'associazione come la conosciamo oggi.