Don Rolando Leo, il caso non è chiuso

«I reati commessi si situano, per gravità, al livello più basso degli atti sessuali». È sostanzialmente con questa motivazione che il giudice Amos Pagnamenta, presidente della Corte delle Assise criminali (giudici a latere Renata Loss Campana ed Emilie Mordasini), ha condannato don Rolando Leo a 18 mesi sospesi con condizionale per due anni. Una pena di gran lunga inferiore ai 5 anni e mezzo chiesti dalla pubblica accusa. Ma anche corrispondente alla metà della condanna prospettata dalla difesa del sacerdote, che si era battuta per una pena massima di 36 mesi, in parte sospesi, e con la parte da scontare non superiore all’anno di carcere già scontato dal 56.enne. Difesa, assunta dall’avvocato Marco Masoni, che ha quindi vista soddisfatta la principale richiesta, ossia che don Rolando Leo potesse tornare in libertà. Ciò che avverrà quanto prima visto che, al termine della lettura del dispositivo della sentenza, il giudice Pagnamenta ha ordinato che il 56.enne fosse riaccompagnato al penitenziario per sbrigare le formalità relative al suo rilascio. Stando ai suoi progetti a corto termine, il presbitero intende trasferirsi in una struttura fuori cantone che accoglie sacerdoti in difficoltà dove potrà seguire il trattamento ambulatoriale ordinato dalla Corte. Una soluzione che ha già ottenuto il benestare della Diocesi. In una nota stampa diffusa nella serata di giovedì, poco dopo la comunicazione della sentenza, la Curia vescovile ha inoltre precisato che, in merito alla situazione attuale del presbitero, proseguono sia l’indagine canonica nei suoi confronti, sia le valutazioni circa la sua prossima residenza. Di sicuro non potrà più dedicarsi ai giovanissimi. Oltre a condannarlo al risarcimento delle vittime, la Corte ha anche decretato nei confronti del sacerdote l’interdizione a vita di svolgere qualsiasi attività che implichi un contatto regolare con minori. La decisione sul futuro di don Rolando Leo spetta al Dicastero per la dottrina della fede, in Vaticano, al quale la Diocesi di Lugano trasmetterà la sentenza che ha richiesto alle autorità giudiziarie ticinesi.
La vicinanza del vescovo
Nel prendere atto della decisione della Corte delle Assise criminali, l’amministratore apostolico, vescovo Alain de Raemy, ha ribadito «la vicinanza sua personale e della Diocesi alle persone coinvolte negli episodi, condividendo con loro, con i loro familiari e con tutti coloro che sono toccati da questo dolorosa vicenda, la sofferenza vissuta». Ribadita anche la costante disponibilità di ascolto e di supporto. E questo, aggiungiamo noi, anche perché sulla vicenda non è ancora stato scritto il punto finale. Visibilmente delusa per la sentenza di primo grado, la procuratrice pubblica Valentina Tuoni è infatti decisa a ricorrere in Appello. La Corte delle Assise criminali ha infatti prosciolto il sacerdote da buona parte delle imputazioni elencate nell’atto d’accusa da lei stilato. Se gli episodi che giuridicamente configurano il reato di atti sessuali con fanciulli e di atti sessuali con persone incapaci di discernimento o inette a resistere sono stati riconosciuti dalla Corte, per sei dei nove casi di coazione sessuale prospettati dall’accusa don Rolando Leo è stato ritenuto non colpevole. E questo poiché, ha argomentato Pagnamenta, i fatti descritti nell’atto d’accusa non trovano riscontro nei racconti delle vittime o presunte tali. «La richiesta di pena formulata dall’accusa è totalmente fuori scala e mal si comprende perché si sia voluta convocare una Corte composta anche dai giudici popolari infondendo false aspettative nelle vittime», è stato l’affondo del presidente della Corte nei confronti della procuratrice pubblica. Secondo il giudice Pagnamenta, il sacerdote non è affatto apparso un manipolatore, né una persona che ha voluto colpevolizzare le sue vittime e nemmeno sminuire i fatti commessi. Al contrario, ha ammesso tutti gli elementi costitutivi dei reati più gravi, «come raramente vediamo in quest’aula», ha aggiunto il presidente della Corte riconoscendo al 56.enne il sincero pentimento e la collaborazione. I reati, quelli di cui è stato riconosciuto colpevole don Rolando Leo, sempre secondo la Corte, si situano al livello più basso degli atti sessuali: si è infatti trattato per lo più di toccamenti, fugaci e sopra i vestiti, delle parti intime dei giovani ai quali il sacerdote praticava i massaggi.
Quei massaggi inopportuni
Toccamenti dei quali il 56.enne si è detto pentito. «Mi proponevo di aiutarli, di alleviare le loro sofferenze. Ma ora mi rendo conto che quei massaggi non dovevo farli. Erano del tutto inopportuni. Non ero un massaggiatore», ha affermato in aula quando si sono ripercorsi i fatti accaduti tra il 2015 ed il 2023 in alcune strutture ticinesi nelle quali risiedeva oppure frequentava il sacerdote, tra cui anche il Collegio Papio, così come fuori cantone. Quelle che chiamava «tecniche di rilassamento» consistevano, appunto, in massaggi al petto, alla pancia e al bassoventre di minorenni e giovani adulti con i quali aveva instaurato un rapporto di amicizia o comunque di confidenza. Massaggi che in alcune occasioni si sono spinti fino a stimolare con l’avambraccio le parti intime delle vittime. «Era consapevole delle sue pulsioni. Aveva la possibilità di chiedere aiuto, ma non l’ha fatto. E ha continuato a praticare i massaggi ai ragazzi che in lui riponevano fiducia. Fiducia che don Rolando Leo ha tradito per soddisfare le proprie voglie. E non importa se poi ha ritrattato», aveva sostenuto in arringa la procuratrice pubblica Valentina Tuoni.
«Don Rolando Leo ha ammesso le sue colpe, conscio della gravità delle stesse. Senza le sue ammissioni non si sarebbe arrivati ad individuare le vittime delle sue malsane attenzioni. Quindi non si può dire che non abbia collaborato con gli inquirenti», aveva dal canto suo ribattuto l’avvocato Masoni, chiedendo il proscioglimento del suo assistito da parte delle coazioni sessuali delle quali era accusato. Proscioglimento che la Corte ha decretato anche per quanto attiene al reato di pornografia, non essendo stato possibile determinare se i giovani ritratti nelle immagini conservate nel telefonino del sacerdote fossero minorenni.