L'editoriale

Qatar 2022, tra libero arbitrio e libertà di sognare

Ci siamo, domani scattano i Mondiali: una fetta dell'opinione pubblica vorrebbe boicottarli, ma la verità è che la magia di questo torneo alberga in molti di noi e riesce a essere più forte dello sdegno
Massimo Solari
19.11.2022 06:00

Il concetto di libero arbitrio affonda le radici nella teologia cristiana, richiamando a sé scelte ed errori all’origine dell’umanità. Senza scomodare Sant’Agostino e la Scolastica, parliamo della capacità di determinare senza condizionamenti esterni, con le proprie azioni e i personali giudizi, cosa è giusto e cosa non lo è. Ecco, appunto: dove porre il Mondiale in Qatar? Siamo sinceri, non abbiamo una risposta. Perché, in fondo, le risposte potrebbero essere molteplici. Ciascuna meritevole di rispetto. Dopo anni di accese discussioni, sdegno e pure un pizzico di ipocrisia, preferiamo limitarci all’essenza. A ciò che dovrebbe esserlo, perlomeno.

Con la partita d’esordio tra Qatar ed Ecuador, qualcosa – dentro molti di noi – verrà smosso. Difficile descrivere esattamente cosa. C’è del sentimento. E quindi ci sono ricordi, rimasti lì, agganciati a un passato comune. Fatto di persone, momenti, emozioni. Capite bene, insomma, che la Coppa del Mondo non costituisce uno spazio come gli altri. Credere di poterlo tenere in ostaggio, è operazione complicata. È un paradosso, certo. Un paradosso incomprensibile. Ma le distorsioni e l’amoralità che regolano i meccanismi del pianeta calcio, per quanto disgustose, non sono un antidoto sufficiente per far desistere miliardi di persone. Come spiegare, per esempio, che metà della popolazione globale seguì l’edizione russa del 2018, a pochi anni di distanza dall’invasione della Crimea? La puzza di bruciato, in fondo, era inconfondibile già allora.

In gioco, suggerivamo, c’è una dimensione intima. Ma al contempo collettiva. Il Mondiale, d’altronde, ha un non so che di liturgico; ogni quattro anni. In quanto tale, perciò, costituisce un invito alla condivisione. Un invito molto potente. E così, senza sapere bene il motivo, ti ritrovi lì, insieme ad altra gente. Come a Natale, alla messa di mezzanotte. Qualche settimana fa, su Libération, il filosofo Thibaud Leplat si è affidato a Michel Foucault per tentare di esprimere il concetto. Parole illuminanti. «I bambini conoscono benissimo questi contro-spazi, queste utopie localizzate. L’angolo remoto del giardino, la soffitta o, meglio ancora, la tenda degli indiani montata al centro della soffitta, e – infine – il giovedì pomeriggio, il grande letto dei genitori». Il Mondiale come un’utopia localizzata, già. Nonostante il Qatar. Nonostante la FIFA. E il peccato originale che li avvinghia.

Restiamo all’essenza, dunque. E a chi dovrà maneggiarla con cura sino al 18 dicembre. Negli scorsi giorni i social media hanno ospitato diversi video, prodotti dai singoli giocatori o dalle rispettive federazioni, nei quali si è voluto condensare il significato più profondo dell’evento. Da un lato l’eccitazione, e finanche la commozione, dopo aver appreso la convocazione del proprio commissario tecnico: forse il punto più alto di una carriera, banalmente un sogno che s’avvera. Dall’altro il coinvolgimento dei tifosi, per sincronizzare testa e cuore, per far sì che nazionale e Nazione si nutrano della stessa passione.

La selezione rossocrociata, su questo piano, non è stata da meno. Chiamando a raccolta i propri sostenitori, al grido «Noi siamo Svizzera». Cosa saremo nei prossimi giorni, però, lo certificherà il campo. Lo chiariranno le prestazioni e l’atteggiamento degli uomini di Murat Yakin. E no, al netto delle premesse confortanti, di garanzie non sentiamo di poterne offrire. Il girone G, dopo tutto, assomiglia a un rebus. Ma se è oggettivo che Xhaka e compagni conoscono più lettere di Camerun e persino Serbia, il rischio d’interpretare male l’intero rompicapo, credendo magari troppo in fretta di conoscere la soluzione, non è da escludere. Anzi. E la storia degli ultimi Mondiali, se vogliamo, contribuisce a infittire l’enigma elvetico. Rispetto al 2018, ad ogni modo, il condottiero e chi lo attornia sono cambiati. Di più: proprio Vladimir Petkovic – prima di defilarsi tra applausi troppo discreti - ha avuto il merito di scuotere definitivamente questa generazione di calciatori. Nella testa ancor più che sul rettangolo verde. Portandola a scorgere panorami mozzafiato. E dal momento che gli stessi giocatori giurano e spergiurano di essere maturati, beh, vien da chiedersi se i clamorosi quarti di finale di Euro 2020 debbano essere ritenuti un trampolino di lancio e non un traguardo. A ciascuno il libero arbitrio. 

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