Il caso

Netflix continuerà a credere nel cinema?

Da una parte i film in concorso, anche a Venezia, dall'altra la necessità di evitare sprechi e investimenti esorbitanti per progetti troppo autoriali: come la mettiamo?
Marcello Pelizzari
03.09.2022 11:00

Piattaforme e cinema. Un rapporto stretto, a volte strettissimo. Ma volubile e instabile, anche troppo. La collega Irene Solari, al Locarno Film Festival, ne aveva parlato con Giona A. Nazzaro e Kevin B. Lee. Ora, l’attenzione di tutti è rivolta a Netflix. Per anni vera e propria mecca dell’industria, capace di attirare registi e autori di fama a fronte di compensi monstre, il colosso dello streaming sta pagando a caro prezzo la sua ipertrofia. O, meglio, deve fare i conti con una perdita di velocità e abbonati. Che cosa significa, tutto questo? Che l’epoca d’oro in cui Netflix metteva sotto contratto David Fincher, i fratelli Coen, Jane Campion, Spike Lee e Paolo sta tramontando? Più o meno.

Gli esperti, a tal proposito, hanno sottolineato anche una certa vanità da parte di Netflix. Per dire: The Irishman di Martin Scorsese costò qualcosa come 159 milioni di dollari, ottenendo sì successo di critica e pubblico ma non abbastanza per giustificare un simile investimento. Secondo un’indagine dell’Hollywood Reporter, insomma, la piattaforma non vuole più finanziare simili transatlantici se così possiamo chiamarli. Ovvero, basta con opere autoriali e prestigiose spesso inadatte al grande pubblico.

Le parole di Cronenberg

Il milione di abbonati perso nel secondo trimestre del 2022, sebbene Netflix se ne aspettasse addirittura di più, ha spinto i dirigenti a una maggiore cautela. Per tacere della concorrenza. L’amministratore delegato Ted Sarandos, in merito, ha indicato la via: «Bigger, better, fewer». La direttiva, invero, non è chiarissima. Significa che troveremo ancora film di nicchia oppure che, a fronte di due film che assieme costano X, verrà approvato un progetto unico per il medesimo costo X? Di sicuro, la percentuale più audace sul fronte autoriale verrà rivista al ribasso.

David Cronenberg, ad esempio, ha rivelato a Variety di aver tirato la giacchetta di Amazon e Netflix per finanziare il suo Future Crimes. Risposta negativa, in entrambi i casi. «Anche loro pensano in termini tradizionali» il laconico commento del regista. Secondo Matt Damon, l’attuale ciclo di vita di un film è parte del problema: prima, infatti, un’eventuale delusione al botteghino poteva essere compensata dall’home video. La vendita e il noleggio di VHS prima e DVD poi. Ora, le finestre di profitto si sono drasticamente ridotte e perfino aziende come Netflix, ora, sembrano puntare alla standardizzazione e a prodotti più sicuri.

Il caso Batgirl

La transizione, va da sé, è complicata. Da un lato, Netflix sta cercando disperatamente di recuperare terreno e abbonati – anche attraverso la pubblicità – mentre dall’altro mantiene impegni, continui, in molti Paesi. E investe. Tanto nelle serie quanto, appunto, nel cinema. Nonostante il desiderio o la necessità di abbassare gli standard e le pretese per il grande schermo, poi, Netflix continua a recitare la parte del leone alle varie rassegne. A Venezia, beh, il gigante dello streaming vanta quattro film in concorso.

Al netto dei problemi, del calo di spettatori e della difficile uscita dalla pandemia, poi, va detto che la visione in sala non è affatto passata di moda, né è stata ammazzata dalle piattaforme. Tradotto: Netflix può fare cinema, ma non è diventato il cinema come temevano (o speravano) alcuni anni fa. Anche i rivali stanno rivalutando il botteghino: Warner, dopo i dati non esaltanti degli ultimi blockbuster, ha annunciato di voler tornare all’antico. Non più uscita contemporanea in sala e su HBO Max, ma prima di tutto una finestra esclusiva per i cinema di 45 giorni. Anche in casa Warner, ovviamente, i guai non mancano come non mancano le decisioni schizofreniche: l’uscita di Batgirl è stata annullata (parliamo di una produzione di 90 milioni di dollari) poiché i dirigenti temevano che il film non sarebbe stato redditizio, indipendentemente dalle modalità di distribuzione. La dimostrazione che l’industria dello streaming, in questo preciso momento storico, fatica a trovare nuovi e duraturi modelli di business. Anche perché quello che funziona per una stagione potrebbe rivelarsi vecchio e inutile l’anno successivo. Eccola, l’era dell’instabilità.

In questo articolo:
Correlati
Il futuro del cinema, tra Festival e piattaforme streaming
Qual è il rapporto tra settima arte e contenuti digitali? Si tratta di mondi separati e in competizione o di realtà che convivono e si danno reciproco appoggio? – Ne abbiamo parlato con il direttore artistico del Locarno Film Festival Giona A. Nazzaro e con Kevin B. Lee, professore esperto di cinema del futuro