Il caso

Quando la violenza giovanile diventa «un grido di aiuto»

Il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani commenta l'ultima serata «calda» a Lugano, con un giovane che ha cercato di aggredire i passanti e gli agenti di polizia
Michele Montanari
13.08.2025 09:15

Un altro caso di violenza giovanile a Lugano, questa volta, fortunatamente, archiviato senza feriti (contrariamente a quanto avvenuto il primo agosto nei pressi della pensilina Botta, con un 19.enne del Bellinzonese finito in ospedale). Il fenomeno, in queste settimane, preoccupa il Ticino, e non solo: anche in Italia, poco oltre il confine, le cronache raccontano di serate finite male, movida eccessiva e risse per futili motivi. I protagonisti, quasi sempre, sono giovanissimi.

Le istituzioni, dicevamo, stanno cercando soluzioni per arginare il problema, specialmente dopo i tanti appelli dei cittadini, i quali vivono con apprensione una situazione allarmante. Una situazione che, nella città sul Ceresio, ha spinto pure Don Emanuele Di Marco a lanciare un appello: si tratta di un'emergenza reale, e va affrontata al più presto.

Il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani (CNDDU, un’associazione professionale italiana costituita da docenti che si  impegnano nell'educazione civica e dei diritti umani), dopo aver preso posizione sui recenti casi di cronaca in Ticino e nel Varesotto, è tornato sull’ultimo episodio di violenza avvenuto nel centro di Lugano, quando un giovane ha dato in escandescenze minacciando alcuni passanti, prima di esser fermato dalla Polizia Città di Lugano. Un evento, secondo il CNDDU, che «rappresenta un segnale d’allarme e ci invita a una riflessione profonda sul contesto sociale ed educativo in cui i giovani vivono oggi».

Secondo il prof. Romano Pesavento, presidente del CNDDU, dietro alla reazione aggressiva del giovane protagonista, che ha tentato di aggredire pure gli agenti di polizia intervenuti sul posto, arrivando a «scagliare un posacenere contro chi cercava di riportare ordine», non si nasconderebbe «soltanto un gesto isolato di devianza. Si tratta invece di una manifestazione di un disagio più ampio e radicato, la punta di un iceberg che racconta di fragilità invisibili, di sradicamento e di mancanza di punti di riferimento. La violenza, in questo senso, diventa una forma di comunicazione estrema, quasi un grido di aiuto di chi non riesce a trovare altri modi per esprimere la propria sofferenza e frustrazione».

Da qui, è necessaria una riflessione, commenta Pesavento: «Ci chiediamo quale sia il ruolo delle condizioni sociali e culturali nel generare nei giovani un senso di esclusione e smarrimento, e quanto incida l’assenza di spazi autentici di partecipazione e dialogo nella costruzione della loro identità. Quanto pesa la carenza di reti di supporto, fatte di famiglie, scuole, servizi sociali e comunità, che lascia tanti giovani soli davanti a difficoltà che spesso non emergono fino a quando non si traducono in gesti di violenza?».

Per il professore, «ridurre questi episodi a semplici atti di devianza rischia di farci perdere la visione di un quadro complesso, in cui la repressione o le soluzioni emergenziali non bastano a intervenire efficacemente. Al contrario, serve una strategia educativa e sociale che sappia riconoscere e affrontare le cause profonde di questi comportamenti. È fondamentale che l’educazione ai diritti umani, alla cittadinanza attiva e alla gestione non violenta dei conflitti diventi parte integrante e viva del percorso scolastico, non relegata a sporadiche lezioni o a semplici nozioni teoriche».

E prosegue: «Allo stesso tempo, è indispensabile promuovere spazi di ascolto, mediazione e sostegno psicologico che permettano ai giovani di far emergere i propri bisogni e difficoltà prima che si trasformino in violenza, offrendo risposte concrete e tempestive. Non si può prescindere da una cultura della corresponsabilità educativa che coinvolga, insieme alla scuola, anche le famiglie, le istituzioni e la società civile nel loro insieme, per evitare che i giovani si sentano abbandonati o esclusi».

Per il prof. Romano Pesavento è dunque necessario restituire «senso di appartenenza, fiducia e comunità a chi oggi si sente marginale e silenziato». Solo in questo modo si potrà «spezzare il circolo vizioso che porta dalla frustrazione alla violenza. La sicurezza e la coesione sociale si costruiscono attraverso la qualità delle relazioni educative e la capacità collettiva di prendersi cura di ogni individuo, con particolare attenzione alle nuove generazioni».