L'approfondimento

Ma l'Ucraina è davvero un Paese fascista (o nazista)?

Sin dall'inizio delle ostilità, nel 2014, la Russia ha cercato di convincere l'Occidente che a Kiev governino i nazifascisti – Un esempio per tutti: il Battaglione Azov – Proviamo a fare chiarezza con Luca Lovisolo
Una marcia di veterani Azov a Kiev, nel 2019. © Wikipedia
Luca Lovisolo
26.10.2023 13:00

Sin dall’inizio delle ostilità, nel 2014, per convincere l’Occidente che l’Ucraina sia un Paese nazionalista, governato da nazifascisti, la Russia cita come prova la presenza di gruppi armati e partiti di estrema destra. Un esempio per tutti: il Battaglione Azov. La narrativa russa è molto pervasiva: non è difficile incontrare, in Svizzera, Italia o Germania, persone convinte che l’Ucraina di oggi sia davvero una replica della Germania di Hitler o dell’Italia di Mussolini.

Nella scorsa puntata abbiamo collocato in una cornice più realistica la figura di Stepan Bandera, che il Cremlino indica come icona storica del «nazismo» in Ucraina. Veniamo al presente e chiariamo tre aspetti-chiave: cosa sono il Battaglione Azov e le altre formazioni simili; qual è la presenza dell’estrema destra nella politica ucraina e cosa significano le parole nazista e fascista nella narrativa diffusa da Mosca.

Una storia che comincia da lontano

Il Battaglione Azov è il più nominato dei gruppi paramilitari sorti in Ucraina tra 2013 e 2014. Altri sono, ad esempio, il corpo di volontari del Pravyj Sektor («Settore destro») o il battaglione Aidar. Se ne possono citare diversi, dai diversi ideali. Per spiegare la loro esistenza bisogna tornare al 1991, anno dell’uscita dell’Ucraina dall’Unione sovietica. Lì sorge la necessità di costituire l’esercito del nuovo Stato ucraino indipendente, riorganizzando e sottomettendo al governo di Kiev le unità delle forze armate sovietiche presenti sul territorio.

L’opera non è facile e rimane a lungo incompiuta. Ristrettezze economiche impongono di ridurre gli effettivi. Una parte consistente del vecchio armamento sovietico si rivela inefficiente e inadeguata. Si colloca in questo quadro anche il «Memorandum di Budapest» con il quale l’Ucraina rinuncia all’arsenale nucleare ereditato dall’Unione sovietica, un trattato che spiega molte cose di quel tempo. Il primo presidente dell’Ucraina indipendente, Leonid Kravčuk, che negoziò il Memorandum poi firmato nel dicembre 2004 dal suo successore, Leonid Kučma, ne parla così: «L’Ucraina non avrebbe mai avuto le risorse economiche e tecnologiche per gestire l’arsenale nucleare. Entro pochi anni avremmo dovuto rigenerare le testate. Sia gli esperti militari sia l’Accademia delle scienze mi dissero che per noi era impossibile. Inoltre, gli unici a poter operare su quegli armamenti erano i russi: ciò avrebbe limitato gravemente la nostra autonomia e sovranità».

L’Ucraina non ha scelta: priva di basi economiche e tecnologiche, con un esercito tutto da costruire, rinuncia all’arsenale nucleare, in cambio di generiche rassicurazioni sul rispetto della sua integrità territoriale da parte delle potenze occidentali e della stessa Russia. Quando, dieci anni dopo, proprio la Russia viola il Memorandum e annette la Crimea, il debole esercitò ucraino non oppone resistenza. Seguono i moti del Donbas, con i quali la Russia tenta di penetrare a fondo in Ucraina, incoraggiata dalla scarsa capacità di risposta dell’esercito di Kiev.

Cos’è davvero il Battaglione Azov?

S’inserisce qui la storia del battaglione Azov e dei suoi simili. Sin dalle giornate della nota «Rivoluzione di Majdan» del 2013/14, in Ucraina si costituiscono gruppi paramilitari di volontari. Vi confluiscono anche neonazisti e nazionalisti, facili alle armi e alla violenza, chi più chi meno. Li spinge la voglia di rivalsa contro l’orientamento filorusso dell’allora presidente Viktor Janukovič. Con l’annessione della Crimea e l’acuirsi degli scontri nel Donbas, questi gruppi crescono di peso e combattono a briglia sciolta contro quella che ormai è diventata un’aggressione da parte della Russia.

A fianco dell’esile esercito, il governo ucraino lancia nella battaglia la Guardia nazionale, le unità armate del Ministero dell’Interno. Giustifica l’impiego definendo l’attività come «operazione anti-terrorismo», anziché come difesa da uno Stato estero: così è, formalmente, sino a quel momento. Ricordo bene il linguaggio dei funzionari e dei media, nei miei viaggi in Ucraina di quel periodo. Tutti sapevano che dietro i fatti del Donbas c’era la Russia, ma non lo si poteva dire, mentre si tentavano le mediazioni per i cosiddetti «accordi di Minsk» del 2014/15. Insieme all’esercito e alla Guardia nazionale, il governo inquadra e impiega nella resistenza alcuni di quei battaglioni di volontari.

Ha poco senso chiedersi oggi se questa scelta sia stata più o meno opportuna. È più utile osservare che in questo modo, e poi con la radicale riforma delle forze armate voluta dal presidente Petro Porošenko (2014/19), alcune di quelle unità vengono smantellate, altre vengono incorporate nell’esercito e abbandonano le ideologie estreme che avevano ispirato i loro fondatori. Gli elementi colpevoli di violenze subiscono processi. Il Battaglione Azov diventa la «Dodicesima brigata d’assalto Azov», distintasi nella battaglia dell’acciaieria Azovstal di Mariupol, nella primavera del 2022. Nel novembre 2022 anche i volontari del Pravyj Sektor vengono inquadrati come brigata meccanizzata DUK e devono attenersi agli standard dell’esercito regolare.

La storia di questi gruppi armati ci dice che molti sorsero davvero da istanze di estrema destra. Affermare, però, che siano ancora oggi portatori di ideologie neonaziste, è irreale. È certo che nell’esercito ucraino vi sono anche militi che simpatizzano per l’estrema destra: se ne trovano negli eserciti di tutto il mondo. Pensare che scelte politiche individuali definiscano il carattere di un esercito e di un intero Stato, però, non ha senso. Eppure, la polemica sorta a fine estate in Italia, quando gruppi filorussi accusano il Comune di Milano di esaltare il fascismo per aver organizzato una mostra fotografica dedicata alla battaglia dell’acciaieria Azovstal, mostra che i pregiudizi diffusi dalla propaganda sono duri da sconfiggere.

L’estrema destra politica in Ucraina

S’innesta qui la vicenda dell’estrema destra nella politica ucraina. I partiti più noti con questo orientamento sono il Pravyj Sektor (già citato sopra per i suoi volontari armati) e Svoboda («Libertà»). Anch’essi si rafforzano durante la presidenza Janukovič. Nel suo studio sulle estreme destre nel conflitto Russia-Ucraina, per l’Institut français des relations internationales (2016), Il ricercatore Vjačeslav Likhačev conferma che la fuga di Janukovič, nel febbraio 2014, durante le proteste di Majdan, toglie a questi partiti la ragion d’essere. Nel 2012 il loro consenso elettorale superava il 10%. Alle elezioni anticipate dell’ottobre 2014 non varcano la soglia di sbarramento del 5% ed escono dal Parlamento, salvo un paio di mandati uninominali. Così è anche alle elezioni del 2019. Restano attivi come movimenti politici, con alcuni eletti nei governi locali. Oggi il Parlamento ucraino è dominato da forze liberali e filoeuropee.

Anche sul piano politico, la storia dice che l’estrema destra ha avuto un ruolo nella società ucraina, durante la protesta contro l’ingerenza russa. Sulla base dei dati e della realtà presente, però, affermare che la società o il governo ucraini siano «nazisti» o «fascisti» non corrisponde ai fatti. L’estremismo è presente, in Ucraina, ma non più di quanto lo sia in altri Paesi europei. Ho seguito per anni il dibattito politico interno ucraino, finché non è stato congelato dalla ripresa della guerra, a febbraio 2022. Non si può certo dire che l’estrema destra vi giochi un ruolo determinante. È presto per fare previsioni, ma sembra improbabile che la guerra possa cambiare questa realtà. Gli ucraini lo sanno, che le ideologie estreme, senza distinzione di parte, sono concausa del disastro di oggi.

Ma cosa significa «fascista» per i russi?

Per chiudere, è importante conoscere il significato che la propaganda russa attribuisce agli aggettivi fascista e nazista, intorno alla guerra in Ucraina. Li usa spesso come sinonimi, con un significato più vicino a nazionalista. Il regime di Putin chiama fascisti gli ucraini che si oppongono al predominio russo: eppure, come abbiamo visto, in Ucraina non vi sono fascisti, nel senso che questa parola ha in Occidente. Questa metamorfosi del termine fascista, nel linguaggio politico russo, è un’eredità del periodo sovietico: in Unione sovietica era «fascista» (o «nazista») tutto ciò che si opponeva al comunismo, perciò al dominio culturale e politico dell’URSS e della lingua russa.

L’Unione sovietica e il comunismo non ci sono più: al loro posto ci sono la Russia e il regime di Putin, che di comunista non hanno nulla. Eppure, la propaganda di Mosca usa ancora l’aggettivo fascista per apostrofare chiunque si opponga all’egemonia russa rivendicando una diversità culturale e nazionale, come gli ucraini. Quando, oggi, sentiamo la parola fascista in bocca ai russi, non dobbiamo pensare a Mussolini, a Starace e alla simbologia del Ventennio italiano. Dobbiamo interpretare questo termine come «nazionalista» e, in particolare, «antirusso». Putin sa che parole come fascismo e nazismo evocano le memorie più tragiche del Novecento. Così, giustifica la guerra in Ucraina come lotta «antifascista» e non gli importa che l’uso di questo lessico arrugginito farebbe ridere, se non fosse una tragedia.

Questo approfondimento fa parte di una seria curata dal ricercatore indipendente Luca Lovisolo in esclusiva per CdT.ch. Per leggere la prima puntata clicca qui. Per la seconda clicca qui. Per la terza clicca qui. Per la quarta clicca qui. Per la quinta clicca qui. Per la sesta clicca qui. Per la settima clicca qui. Per l'ottava clicca qui. Per la nona clicca qui.

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