Calcio

Come alimentare un amore che divampa

La storica Coppa Svizzera conquistata dal Lugano ha generato orgoglio, entusiasmo ma anche riflessioni sul rapporto tra il club e un pubblico ondivago - Philippe Vonnard: «Tramandare la cultura calcistica è complicato, ma questi successi sono terreno fertile»
Massimo Solari
17.05.2022 06:00

L’avevano festeggiata nel 1968, e forse già allora non si sarebbero aspettati di rivivere un’altra, simile impresa a 25 anni di distanza. Figuriamoci nel 2022. La generazione del «triplete», chiamiamola così, ha invece gioito ancora. I capelli grigi, ma dentro il vigore e l’adrenalina di un tempo. Sui treni speciali che hanno indirizzato l’esodo bianconero a Berna, loro, i tifosi della vecchia guardia, hanno affiancato figli e nipoti. I vagoni della vita, riuniti in un indimenticabile viaggio. Sportivo e anche cultural popolare. Perché la Coppa Svizzera non è stata vinta solo dal Lugano. No, ad alzare idealmente il trofeo nazionale - dopo aver combattuto per riportarlo in Ticino - è stata una comunità. Con i suoi pregi e i suoi difetti. La cosiddetta «piazza», già, che proprio in piazza della Riforma ha completato la sua catarsi. Un appagamento totale, alimentato sia dal lungo digiuno, sia da un modo di essere. E di vivere lo sport nelle sue molteplici e controverse declinazioni. Per dire, già ci si chiede che ne sarà dell’entusiasmo contagioso che domenica ha spinto i bianconeri al Wankdorf. L’inebriante effetto del trionfo svanirà? Sì, no, magari? E nel caso, quando e in che misura?

La drammaturgia in scena

«Il formato particolare della Coppa incide, eccome, sulle abitudini della gente» premette Philippe Vonnard, storico dello sport all’Università di Losanna. «In fondo è la competizione del “tutto è possibile”. Dell’equità in qualche modo ripristinata. Della speranza che divampa. Ma anche il trofeo svizzero ambito da tanti giocatori e allenatori svizzeri. Il tutto contribuisce a una drammaturgia che il campionato, nella sua concezione, non è in grado di offrire. Cosa che al contrario una finale condensa al massimo. A maggior ragione se disputata in un luogo simbolico come il Wankdorf di Berna». Al netto del risultato differente, il paragone con l’esperienza del 2016 in effetti non regge. Nei numeri, come pure sul piano dell’atmosfera. «L’ultimo atto della Coppa - aggiunge Vonnard - è carico di tensione. Una tensione, per altro, spesso condivisa in famiglia. Con il nonno che racconta la sua di finale ai nipoti, e il papà allo stesso modo. Pur non essendo appassionati di calcio, l’attrazione per l’evento diviene dunque fatale». Per l’esperto vodese «non vi sono molte partite, nell’arco di un anno, così fertili per la trasmissione di una passione sportiva. In Svizzera, non bisogna dimenticarlo, il pallone è importante ma non così importante. Tradotto: tramandare la cultura calcistica di generazione in generazione non è affatto scontato. Queste occasioni particolari, dove banalmente anche le condizioni meteorologiche giocano la loro parte - (a Zurigo, nel 2016, grigiore e amarezza, domenica a Berna sole e felicità folle) -, possono trasformarsi in collanti molto potenti all’interno dei nuclei familiari».

A differenza del campionato, la Coppa Svizzera ha il potere di riattivare l'identità locale
Philippe Vonnard, storico dello sport all'Università di Losanna

Il compito della dirigenza

Okay. Insistiamo. Come dare continuità e capitalizzare l’enorme affetto percepito prima a Berna e poi per le vie della città? «La questione - evidenzia Vonnard - è complessa e influenzata da molteplici elementi. Il momento della stagione, il comfort dello stadio, i risultati beninteso, l’avversario. Il calcio è stato forse il passatempo prediletto del ceto popolare e medio fino agli anni Sessanta, dopodiché le potenziali distrazioni si sono moltiplicate. La gente, ora più che mai, è alla ricerca di attività diversificate. Andare oggi allo stadio, dunque, non significa forzatamente volersi ripetere il weekend seguente. Difficile insomma asserire se la conquista della Coppa farà svoltare il pubblico luganese». Slancio e orgoglio, intanto, sono lì da sfruttare. «Per rendere dinamico il rapporto tra club e spettatori il lavoro della dirigenza sarà fondamentale» nota in merito Philippe Vonnard. «Serve agire in modo proattivo e, appunto, comprendere a fondo da quali elementi dipende l’ancoraggio della squadra nella cultura del posto. Aggrapparsi in modo nostalgico ai successi del passato è sufficiente? O forse è preferibile incontrare le esigenze dei tifosi moderni, sul piano infrastrutturale? E quanto potrebbe fungere da stimolo recarsi nelle scuole, organizzare conferenze, creare un museo, avvicinare ulteriormente giocatori e cittadini? L’operazione, va da sé, abbraccia il lungo termine».

Il Sion, il «Crus» e il boccalino

La stagione agli sgoccioli, di certo, ha premiato la strategia del club. «Cambiare giocatori in continuazione non favorisce l’attaccamento della gente. E anche in un mondo globalizzato, ripeto, gli appigli locali possono rivelarsi molto preziosi nei momenti belli ma anche in quelli complicati. Quando l’approccio con la tifoseria e i giornalisti può fare la differenza». Oltre che suggerire l’importanza del rinnovo di capitan Sabbatini, le parole dello storico dello sport dell’UNIL accendono i riflettori su di lui. Su Mattia Croci-Torti. Un fattore umano. Ma altresì il trofeo e il suo principale artefice che diventano un tutt’uno. Vonnard, non a caso, tiene a sottolineare la componente identitaria che discende dalla Coppa Svizzera. «A partire dagli anni Sessanta, la competizione ha consolidato il legame tra squadra, città e, più in generale, il cantone. Il caso del Sion, in tal senso, è emblematico. In occasione del primo sigillo, nel 1965, la formazione si presentò in campo con lo stemma del Vallese sulla divisa. Ebbene, lo spirito generato da quella vittoria è stato poi cavalcato e imitato da altri club. Realtà che hanno compreso come fosse possibile, attraverso la finalissima, riattivare l’identità locale e financo cantonale». Il successo bianconero lo ha confermato a suo modo. Basta osservare la grafica realizzata dopo il successo contro il San Gallo, salutato con un «bentornata in Ticino». Nel dettaglio, la formazione circonda un boccalino a forma di Coppa Svizzera, a sua volta in secondo piano rispetto al «Crus». Simbolicità e icone allo stato puro. «E il fatto che i quotidiani di tutto il Paese abbiano sottolineato e parlato della vittoria del Lugano, ha ravvivato ulteriormente questo sentimento collettivo».

Conta anche il percorso

Non solo. In prospettiva, aggiunge il nostro interlocutore, «la vetrina europea dovrebbe galvanizzare ulteriormente la piazza». Come un pungolo, sì, tanto insistente quanto invitante. «Nella maggior parte dei casi, l’eccitamento sportivo è figlio di un processo. La tipologia di percorso nel torneo, per esempio, ha un suo peso particolare». Beh, in effetti, il bellissimo successo contro lo Young Boys negli ottavi, con le porte aperte di Cornaredo e all’orizzonte il voto sul Polo sportivo, ha creato una scintilla. Ha smosso tanti luganesi. «E basta davvero poco - penso all’interesse rafforzato dei media o alla sintonia tra pubblico e squadra - per innescare nuove dinamiche. In merito mi viene in mente il Losanna. Sono certo che se avesse raggiunto la finale di Coppa, a Berna si sarebbero recati in massa. Tuttavia, proprio in considerazione delle frizioni tra dirigenza e tifoseria, l’ambiente probabilmente sarebbe stato meno favorevole». E il sapore della vittoria, molto meno dolce di quello provato dal popolo bianconero.

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